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Perché si colpiscono e straziano le salme di personaggi spesso famosi profanando il loro eterno riposo? Una spiegazione c’è

NELL’immaginario collettivo, l’arte del tacere ci è stata trasmessa con la similitudine “muto come una tomba”, ma in questo caso le tombe parlano eccome. La commemorazione dei defunti fa a tutti gli effetti parte di un bagaglio culturale nato e cresciuto con l’uomo stesso. Da millenni la morte è parte integrante della vita e come tale viene considerata in un complesso di eredità e tradizioni appartenenti a tutti i popoli del mondo a seconda del proprio vissuto e di ciò che è stato loro tramandato. C’è chi seppellisce i propri morti a contatto con la terra perché è ad essa che si ritorna; c’è chi affida l’eterno riposo dei propri defunti alla cremazione per poter tenere le spoglie mortali nelle proprie case; c’è chi preferisce seppellirli con una lastra di marmo a mostrare i loro volti sorridenti. In ognuna di queste modalità c’è tutto il senso dell’onore per i defunti, che nel corso dei millenni non ha mai perduto né sbiadito il proprio valore.

Quasi sorprende – e considerata la natura contraddittoria che definisce noi umani, non dovrebbe – che esista un opposto all’onore della sepoltura dei morti, e che quell’opposto sia, per l’appunto, la profanazione della tomba, una pratica cui non siamo nuovi non soltanto per via delle recenti notizie trapelate dai giornali, ma anche grazie a testimonianze che affondano le proprie radici in un passato molto lontano. In tempi antichi era perfino pericoloso e di pessimo auspicio profanare le tombe dei defunti, erano molto diffuse (specie nell’antico Egitto) le minacce di maledizioni per tutte le generazioni a venire qualora fosse stato dissacrato il riposo eterno di un trapassato. Eppure all’epoca la motivazione era semplice: arricchirsi. Sebbene fosse chiaro fin dai tempi più antichi che le ricchezze non ci avrebbero seguiti nel nostro viaggio eterno, non era raro nel passato che un sovrano o un soggetto benestante venisse seppellito insieme ai propri averi: collane e coppe d’oro, argenti, corone. Le idee alla base di questa usanza erano le più diverse, dal voler seppellire il defunto con gli oggetti che l’avevano caratterizzato in vita fino alla volontà di farlo giungere al cospetto della divinità venerata nel più elegante dei modi, come si conveniva per un incontro con gli dèi. Anche il mondo greco ci restituisce un’immagine molto dettagliata del lutto prima, e della sepoltura poi: ad esempio, nei giorni del cordoglio veniva posto un grande vaso pieno d’acqua all’esterno della casa dei dolenti per purificare gli ospiti che entravano a onorare il defunto, e una delle usanze diventate più “pop” e conosciute in tempi moderni è quella delle monete appoggiate sugli occhi della salma, necessarie a pagare il pedaggio a Caronte una volta giunti negli Inferi. Dettaglio paradossale, ma non troppo: l’importanza della sepoltura la detta proprio la sua assenza.

Un individuo morto senza degna sepoltura era un individuo destinato all’oblio eterno, altro che eterno riposo, era destinato ad essere dimenticato per sempre e a non lasciare nessuna traccia del passaggio in vita dietro di sé. Durante la Rivoluzione Francese vennero profanate le tombe dei reali, a Saint-Denis. I corpi vennero trascinati via e le sepolture distrutte, in uno degli episodi ancor oggi più significativi della rivolta del 1789. In occasione del primo anniversario della presa delle Tuileries, i sepolcri dei sovrani vennero aperti e i corpi dispersi in nome di un rinnovamento e, al contempo, di un forte rigetto di quelli che vennero definiti “gli impuri tiranni”. Con la devastazione dei sepolcri di Saint-Denis, il messaggio della fine di un’era che passava da una mano regale all’altra era estremamente chiaro.

E neppure la nostra Letteratura si sottrae all’importanza della sepoltura. In risposta all’editto di Saint-Cloud emanato da Napoleone, Ugo Foscolo scrisse il suo carme più famoso, “Dei Sepolcri”, per pronunciarsi sulle ragioni dell’Editto che intendeva porre tutte le sepolture al di fuori delle mura della città, indistintamente, senza alcuna differenza tra il corpo di un poeta e quello di un comune cittadino. Tale è l’importanza della sepoltura anche in Foscolo, che egli la considera il luogo in cui il defunto può riposare e sopravvivere nei ricordi di chi rimane (valore che Foscolo attribuisce alla tomba anche nel componimento “In morte del fratello Giovanni”), e proprio per questo non possiamo sottrarci dal prendere in considerazione l’atto della profanazione e le sue conseguenze.

La storia della profanazione delle tombe ha radici lontane, è vero, ma sono anche di diversa estrazione: molto di recente, ad esempio, è stata nuovamente profanata la tomba dove Enrico Berlinguer riposa. Nel cimitero di Prima Porta, a Roma, il 17 giugno scorso si è verificato il terzo episodio di vilipendio nel giro di due mesi, esattamente sei giorni dopo l’anniversario della sua morte. Non proprio un eterno riposo. “Profanazione” è un termine che ci arriva dalle lingue antiche e che, etimologicamente, significa “compromettere od offendere il carattere sacro di un qualcosa”. Massimiliano Verdino, antropologo e scrittore, evidenzia come la vicenda della profanazione della tomba di Berlinguer trascini con sé inevitabilmente un tema di consenso molto pronunciato. “Berlinguer riceveva attestati di stima molto trasversali”, spiega Verdino, “fu il primo a sollevare la questione morale del fare politica in Italia. Inevitabilmente viene toccato il simbolo identitario di un certo tipo di politica”.

Ma chi profana le tombe e soprattutto, perché? Cosa spinge qualcuno a sfidare i costumi e la tradizione, e perché è un’azione tanto repentina? Profanare significa, a suo modo, “svelare un segreto”, una ritualità che risiede all’interno di ambiti protetti da anni di costume e cultura in maniera spudorata e immorale. Secondo Verdino “facciamo riferimento ai costumi per individuare le norme di carattere morale alle quali tendiamo, e l’obiettivo di chi profana è quello di scioccare, scandalizzare”. Esatto, scandalizzare. Altro verbo di derivazione greca, “skandalìzo”, a sua volta discendente da “skàndalon”, e cioè “ostacolo”; un verbo, una radice, che fa riferimento alle pietre che si interpongono lungo il cammino. Lo scandalo cambia le prospettive, come ci spiega Verdino, travia il percorso ordinario. Chi profana una tomba lo fa quindi generalmente per destare scalpore, quasi per bearsi dello stupore di chi invece preserva l’eterno riposo come simbologia del viaggio da non interrompere e condanna la dissacrazione dei sepolcri come elemento di profondo disturbo, pratico e materiale, nei confronti della comunità. Non a caso anche il Codice Penale si pronuncia sulla profanazione. Ai sensi dell’Articolo 408, il Codice sancisce che “chiunque, in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, commette vilipendio di tombe, sepolcri o urne o di cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”: insomma, un gesto di cui fanno le spese i morti, ma che certamente non passa inosservato tra i vivi.

In una comunità in cui (auspicando che sia vero) si è tutti sullo stesso livello, ostentare uno status è il vero obiettivo di chi profana le tombe: inseguire il fascino del proibito, di ciò che diverge dall’ordinario corso della società. C’è ancora chi deruba i cimiteri per arricchirsi, ma non sono più i monili l’obiettivo dei furti – e del resto quasi più nessuno, nei nostri tempi, viene seppellito con i propri averi, quelli più sfavillanti e di valore -, quanto piuttosto i fili elettrici, il marmo, a volte perfino la pietra lavica utilizzata sulle tombe dell’Ottocento per rendere i ritratti più durevoli. Al già spregevole gesto della profanazione si aggiunge quindi una motivazione altrettanto abietta, a riprova del fatto che siamo sempre sorprendentemente in grado di scavare al di sotto del fondo che avevamo già raggiunto.

Ma non c’è solo la rivalsa politica o l’obiettivo di creare scompiglio nel sentire comune tra i motivi che spingono i profanatori a dissacrare le tombe. Altri personaggi presi di mira da questi vili gesti sono quelli famosi, quelli che, come si dice nell’ormai consunto ritornello che li riguarda, “entrano in punta di piedi ogni sera nelle nostre case”. Abbiamo cominciato molto lontano nel tempo, con la profanazione delle spoglie di Charlie Chaplin nel 1978. Due rifugiati politici sottrassero dalla bara ciò che restava di Chaplin e chiesero un riscatto di 700 mila dollari. Nel 1987 toccò alla bara di Juan Peron, e la salma subì un trattamento ancora peggiore del trafugamento: dal corpo vennero amputate entrambe le mani e venne chiesto un riscatto di ben otto milioni di dollari per la loro restituzione. Parlando di personaggi a noi più vicini, la profanazione della tomba di Mike Bongiorno risale al 2011, appena due anni dopo la morte del presentatore. Nella notte tra il 24 e il 25 gennaio venne trafugata la tomba e portata via la bara, e soltanto a dicembre dello stesso anno venne ritrovato il corpo a circa 70 chilometri dal cimitero di Arona dal quale era stato sottratto.

Si tratta di un altro dei motivi per i quali si devastano le tombe dei defunti, ed è assai più banale di quanto possa sembrare all’apparenza: il feticcio. In un certo senso, il fanatismo è nato con l’uomo. La necessità impellente di avvicinarsi, con qualunque mezzo lecito o illecito, il più possibile a un personaggio famoso nei casi più “terreni” e agli dèi nei casi più estremi ha sempre sfumato le azioni dell’uomo in certi contesti. Qui non domina l’idea di compiere un gesto che taglia in due l’opinione pubblica, non si tratta di deturpare una tradizione ma di qualcosa di più intimo ed egoistico. Viene quindi spontaneo pensare a un dualismo: la sepoltura è collettiva, rappresenta la comunità, così come lo fa il lutto in un’espressione di massima condivisione del dolore; la profanazione, invece, appartiene al singolo, all’uno, e si manifesta anche e soprattutto nel dissenso che quella comunità, così coesa nella sepoltura, esprime nei confronti del trafugamento. Ci è stato insegnato che tra Morte e Vita il confine è labile e che proprio per questo motivo va preservato e custodito.

A prescindere da cosa si creda o meno, la fine della vita altro non è che l’inizio di un viaggio diverso, forse impegnativo, di sicuro un eterno riposo da non turbare. Un viaggio per il quale tutti hanno il diritto di avere il posto finestrino, il buio davanti, il silenzio prima della meta.


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