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Illustrazione tratta dal sito pensiero.online

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Confini e stranieri: comprendere il rapporto tra confine ed etnocentrismo è essenziale per affrontare problemi come la discriminazione, il razzismo e le disuguaglianze sociali. Problemi con cui il mondo deve fare i conti


Spesso, sempre più spesso, si fa riferimento al concetto di confine nei discorsi che riguardano i fatti della vita quotidiana. Se n’è sempre fatto uso, in verità, ma a scadenze più o meno regolari quella dei confini torna ad essere una questione che occupa il centro della gran parte dei discorsi che caratterizzano un determinato periodo storico: per quanto ci riguarda, per esempio, fa da fulcro ormai da tempo nei discorsi che trattano il tema immigrazione, oltre che essere tornato d’attualità anche per quanto riguarda gli aspetti più strettamente territoriali, quelli che purtroppo spesso si pensa di risolvere con l’antiquato metodo della guerra. I confini come concetto esistono da sempre, sia chiaro, e si tratta, inevitabilmente, di un concetto complesso.
Gli studiosi lo descrivono sommariamente come quella linea borderline (comprensiva di un’area borderland intorno ad essa) che delimita due stati, due regioni, due città, due comunità, due sistemi sociali, due organizzazioni.

Ciò avviene perché, come ci ricorda Niklas Luhmann, il confine come linea concreta, reale, relazionale “riduce i punti di contatto con l’ambiente”; come conseguenza di ciò, “le relazioni tra sistema e ambiente possono aumentare la loro complessità, la loro differenziazione e la loro mutabilità controllata”. La storia del termine stesso di confine è ricchissima di etimi differenti, tutti culturalmente determinati. La nozione di confine più elementare fa certamente
riferimento a quella relativa ai confini spaziali, fondata com’è sulla primordiale tipologia di insediamento e legata alle attività connesse alla raccolta umano, espresso dalla più semplice attività: la raccolta di alimenti disponibili entro un orizzonte noto. Di tenore diverso l’evoluzione temporale del concetto, legato alla coppia di termini latini ‘limites’ e ‘fines’, che ci riportano alla nozione di territori lontani, ma pertinenti all’interesse di chi sta al centro; fino a giungere al medievale ‘confine’ attraverso una concettualizzazione del tutto nuova, che da concordanza sulla partizione di competenze immobiliari si eleva a determinazione concordata di aree riservate ai centri di potere territoriale.

Ma rigidamente applicato agli Stati, il termine confine diventa anche frontiera, quando nell’allargamento dei significati si ragiona anche sulla necessità di proteggere i confini utilizzando apposite forze armate speciali. In questa evoluzione il confine diventa frontiera e va inteso come una vera e propria barriera, che non permette il libero transito. Barriere che vengono edificate esattamente con quello scopo, come dimostrano nel corso delle diverse epoche storiche, la Grande Muraglia Cinese, il Vallo dell’Impero romano, le costruzioni in Persia, oltre ad una serie di monasteri fortificati più efficaci nell’espansione dei territori dell’Europa Centro-Orientale.

Di confini, e di superamento degli stessi – di sconfinamenti, insomma – è piena la storia del mondo. Solo a titolo di esempio, possiamo ricordare come già nel 49 aC, esattamente la notte tra il 10 e l’11 gennaio, Cesare oltrepassò con l’esercito un piccolo corso d’acqua nei pressi di Ravenna, il Rubicone, che segnava il confine tra la provincia della Gallia Cisalpina e “l’ager populi Romani”: ebbe così l’inizio della guerra civile che portò al disfacimento le istituzioni repubblicane e accelerò quel processo di accentramento del potere iniziato da Silla trent’anni prima.
Il più famoso passaggio di confine della storia antica ci racconta insomma, ancora una volta, della sacralità dei confini, identificati anche in un fiume come rito di passaggio. Gli elementi naturali hanno spesso rappresentato confini di fatto: catene montuose o fiumi hanno sovente raffigurato un modo, appunto naturale, di delimitare stati e nazioni. Ma naturalmente non è una regola, e gli esempi sono numerosi. In molti altri casi, invece, i confini sono stati l’esito di politiche di colonialismo, com’è accaduto per esempio nel continente africano.

“L’Africa rimane la più monumentale invenzione della creatività europea” è il duro commento di Wole Soyinka, drammaturgo nigeriano, unico africano nero a vincere il premio Nobel per la letteratura. Che poi aggiunge: “Tutte le cosiddette nazioni di questo continente sono semplici invenzioni delle potenze imperiali, al servizio di interessi esterni”. Non si fa fatica a dargli ragione: lo testimonia la storia, con fatti certi, e lo si può desumere anche abbastanza semplicemente con un semplice colpo d’occhio, guardando i confini tirati con un righello sulla carta geografica dell’Africa. Ne ho avuto testimonianza diretta anch’io, quando alla domanda rivolta ad alcuni abitanti dello Zimbabwe sul loro percepirsi come, appunto, cittadini dello Zimbabwe o persone che mantenevano ancora un qualche tipo di connessione con la corona inglese, mi hanno risposto, in maniera secca e precisa.

“Lo Zimbabwe non esiste, non è mai esistito, neanche quando lo chiamavano Rhodesia. Qui, allora come adesso, ci sono due popoli tradizionalmente differenti, Shona e n’Debele, oltre a Tonga e Tsawana. Nessuno di noi dice di essere dello Zimbabwe: io, per esempio, sono Shona”. La dissennata fase del colonialismo occidentale europeo in Africa ha lasciato un continente impoverito e trasformato fin nelle sue più intime pieghe, disegnando terre, nazioni e confini che esistono solo sulla carta, che disconoscono le stesse, basilari, forme di etnie presenti sul territorio per rispondere, invece, a precisi interessi economici.

Proprio a partire dalla sua complessità come concetto, il confine è stato oggetto di analisi da parte di moltissimi studiosi di sociologia, a partire da Simmel, persuaso del fatto che i confini traducono la disponibilità, e talvolta la necessità, dello spazio sociale a tradursi in uno spazio fisico. Nella sua teoria della struttura sociale, Simmel ha esplorato come i confini definiscono i gruppi sociali e le relazioni tra individui, introducendo il concetto di straniero, una figura che si trova ai margini dei confini sociali, sia interno che esterno alla società. In questa prospettiva, Simmel ha sottolineato la valenza positiva dei confini nel creare coesione interna e differenziazione esterna.
L’antropologo norvegese Fredrik Barth è invece convinto del fatto che i confini etnici e culturali non sono definiti solo da differenze oggettive tra gruppi ma sono attivamente costruiti e mantenuti attraverso interazioni sociali, sono permeabili e dinamici, e l’identità di gruppo è negoziata attraverso questi confini.

La sociologa statunitense Michèle Lamont ha invece studiato i confini simbolici, cioè le linee di demarcazione che le persone tracciano per distinguere tra “noi” e “loro”. Questi confini possono essere basati su criteri morali, culturali e socioeconomici e influenzano l’inclusione e l’esclusione sociale. Lamont ha evidenziato come questi confini simbolici possano trasformarsi in confini sociali reali, con implicazioni concrete in tema di disuguaglianze. Un contributo interessante al tema dei confini geografici e politici è quello fornito da David Newman, che si concentra su come essi siano socialmente costruiti e mantengano relazioni di potere. In questa prospettiva, i confini territoriali non sono solo linee fisiche, ma rappresentano anche barriere sociali e culturali che influenzano l’accesso alle risorse e alle opportunità.

Su questa stessa linea di interpretazione, anche alcuni studi di antropologia politica dei confini, che esamina proprio come i confini siano usati per il controllo e il potere politico. Antropologi come Peter Sahlins e Benedict Anderson hanno studiato come i confini nazionali siano costruiti e mantenuti attraverso pratiche statali, narrazioni nazionaliste e politiche di inclusione ed esclusione, risultando in questo modo veri e propri strumenti di sovranità e gestione delle popolazioni. Gli antropologi della globalizzazione, come Arjun Appadurai, esaminano invece come i processi globali influenzino i confini geografici. Appadurai parla di “scapes”, paesaggi o scenari veri e propri, come etnoscapes, mediascapes, technoscapes, financescapes e ideoscapes, che attraversano i confini tradizionali e creano nuove connessioni e disconnessioni tra persone e luoghi.

Questi paesaggi globali sfidano le nozioni tradizionali di confini stabili e impermeabili, esattamente come accade nella cosiddetta teoria dei confini porosi, che sottolinea come i confini non sono mai completamente chiusi o rigidi, ma sono, invece, per l’appunto sempre porosi e permeabili. Importanti, in questa direzione, gli studi di altri antropologi come Akhil Gupta e James Ferguson, che hanno analizzato come le persone, le idee, le merci e le pratiche culturali attraversino i confini, trasformandoli continuamente. I confini, insomma, sono visti come processi in continua negoziazione piuttosto che come linee fisse.
Anche Saskia Sassen ha studiato come la globalizzazione influenzi i confini nazionali e sociali, sia pur in ottica leggermente differente. La mobilità transnazionale di persone, capitale e informazioni crea infatti nuove forme di confini che sono spesso meno visibili ma altrettanto potenti nel definire inclusione ed esclusione.

Quello che accomuna molti degli approcci sociologici con il tema dei confini è certamente l’analisi della propensione all’etnocentrismo, che indubbiamente contribuisce alla costruzione e al mantenimento dei confini culturali e sociali. Considerando la propria cultura come standard, le persone creano confini che separano “noi” da “loro”. Questi confini possono essere fisici, come le frontiere nazionali, ma anche simbolici, come accade con le norme e i valori culturali. Occuparsi del tema dei confini, insomma, è compito estremamente interessante e doveroso per chi si occupi di stati e società, proprio perché i confini non sono solo linee fisiche, ma anche concetti che definiscono e delimitano conoscenze, identità, etiche e politiche. Le riflessioni e gli studi sui confini ci aiutano a comprendere meglio le dinamiche complesse che modellano le nostre vite individuali e collettive, illuminando i modi in cui tracciamo, negoziamo e superiamo i confini nel mondo contemporaneo.

E se John Stuart Mill discute i confini tra la libertà individuale e l’autorità sociale proponendo il principio del danno, secondo cui l’interferenza con la libertà individuale è giustificata solo per prevenire danni ad altri, con un tracciamento dei confini etici tra libertà personale e responsabilità sociale fondamentale nella filosofia politica liberale, il concetto di confine è cruciale anche nella filosofia politica. Thomas Hobbes, nel Leviatano, discute l’importanza dei confini territoriali per la formazione dello Stato e la protezione dei suoi cittadini. Dal canto suo, invece, Jean-Jacques Rousseau nel “Contratto sociale” esplora come i confini territoriali influenzino la formazione del corpo politico e la sovranità popolare.

Interessanti anche le analisi di Oswald Spengler e Samuel Huntington, che a loro volta hanno riflettuto sui confini tra civiltà. Spengler, nella sua opera “Il tramonto dell’Occidente”, vede le civiltà come organismi con confini temporali definiti dalla loro crescita e declino. Huntington, nel suo saggio “Lo scontro delle civiltà” del 1996, si diceva convinto del fatto che i futuri conflitti globali sarebbero stati caratterizzati dall’essere riferiti a rivalità tra diverse civiltà culturali, delineando confini tra blocchi culturali distinti. Che è poi il quadro che oggi, trent’anni dopo, ci troviamo difronte in diverse zone del mondo.

Chiaro che i problemi da risolvere siano tanti e assolutamente non semplici. Ma è evidente che comprendere il rapporto tra confine ed etnocentrismo è essenziale per affrontare problemi come la discriminazione, il razzismo e le disuguaglianze sociali. Promuovere l’educazione interculturale e il dialogo può aiutare a superare gli atteggiamenti etnocentrici e a creare società più inclusive. Che, come inizio della soluzione, non sarebbero assolutamente da buttar via.


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