Gli attori Enzo Staiola e Lamberto Maggiorani in una scena
6 minuti per la letturaSETTANTACINQUE anni fa, nel novembre del 1948, usciva nelle sale italiane Ladri di biciclette, il capolavoro di Vittorio De Sica scritto, tra gli altri, con Cesare Zavattini. Il film passa alla storia come uno dei film più celebri della stagione del neorealismo italiano, anche se al momento della sua uscita genera non poche polemiche. Nel contesto delle elezioni politiche del 1948, le prime dell’Italia repubblicana dopo oltre un ventennio di regime fascista, il film viene accolto con la stessa polarizzazione su cui si sta ricostruendo la società italiana del dopoguerra: da un lato, la cultura progressista che vuole spingere l’Italia verso la sfera d’influenza sovietica adotta il film come una sorta di vessillo; dall’altro, i democristiani, che hanno appena vinto le elezioni con una schiacciante maggioranza, inizieranno di lì a poco la loro personale battaglia contro il neorealismo, reo di rendere all’estero un’immagine dell’Italia, paese in ricostruzione alla ricerca di aiuti economici internazionali, poco lusinghiera.
Ladri di biciclette è, per certi versi, uno dei manifesti del neorealismo italiano, assieme a film come Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini e La terra trema (1948) di Luchino Visconti. Tuttavia, rispetto agli altri film ascrivibili a questa tendenza il lavoro sulla costruzione drammaturgica del film appare qui decisamente più strutturato. Zavattini adatta il soggetto da un racconto di Luigi Bartolini, tratto dall’esperienza personale del furto di una bicicletta subito a Roma dallo scrittore. L’idea alla base è quella di costruire una vicenda che dia l’impressione di conformarsi a un andamento casuale, elevando in chiave drammaturgica una storia banale, apparentemente priva di interesse, come un ordinario furto di una bicicletta, senza che tuttavia vi sia mai nulla d’improvvisato. Anche se i fatti che vediamo sullo schermo danno l’illusione di essere più reali della realtà, conferendo spesso alle immagini una sorta di statuto documentaristico, l’articolazione narrativa proposta da Zavattini e le scelte registiche compiute da De Sica sono perfettamente calibrate, oculate, rigorose, nonché tese a un unico fine: non tanto rendere cinematograficamente la storia come se fosse reale, quanto raccontare la realtà attraverso il cinema come se fosse una storia.
Se la ricerca della bicicletta rappresenta, a prima vista, il motore della storia, tale indagine si trasforma nel corso del film in un pretesto per raccontare qualcos’altro. In particolare, la vera protagonista del film è la città di Roma, ovvero l’ambiente in cui Antonio Ricci e suo figlio Bruno (rispettivamente interpretati da Lamberto Maggiorani e il piccolo Enzo Staiola, due attori non professionisti) vagano apparentemente senza meta, alla ricerca della bici perduta. Il rifiuto totale nei confronti dell’intreccio narrativo tradizionale, fondato sulla successione di fatti concatenati tra loro, permette agli autori di adottare uno sguardo trasversale, quasi episodico, sulla realtà sociale che viene raccontata. Attraverso il pedinamento “in tempo reale” dei due personaggi, le cui passeggiate vengono seguite da una macchina da presa pressoché invisibile e trasparente, De Sica si focalizza sulle contraddizioni sociali, culturali, perfino architettoniche della città del dopoguerra, in una continua ellissi tra il centro storico medievale (Trastevere, Porta Portese, Piazza Vittorio) e la Roma delle periferie popolari appena costruite (il quartiere proletario di Val Melaina dove inizia il film). In altri termini, siamo lontani da quella Roma turistica, da cartolina, su cui tanto aveva insistito l’immaginario fascista in chiave propagandistica, e ben più vicini una città stratificata, labirintica, tutta da scoprire.
L’eredità dal fascismo ha un peso rilevante, non solo nel racconto di alcuni scorci della città, ma anche in relazione alla rappresentazione della povertà e delle condizioni sociali disagiate come se fossero, indirettamente, un retaggio diretto del regime. Ed è così che il film, alla fine, racconta un popolo alla ricerca di una sua identità, a metà tra l’indifferenza umana e la solidarietà sociale, che affronta le difficoltà della ricostruzione tentando di non perdere mai la dignità. Ed è proprio nel finale del film, che non risolve il “caso” della bicicletta, e anzi getta una serie di dubbi morali sul posizionamento etico del padre attraverso gli occhi del bambino, che si universalizza il dubbio identitario di un intero paese. Gli attori, tutti “presi dalla strada”, più che agenti di sviluppo della storia finiscono per essere così un mezzo per raccontare la realtà sociale, restituita in tutta la sua adesione con la complessità della nostra esperienza quotidiana.
A dispetto dello scarso riscontro di pubblico e della polarizzazione politica con cui il film viene letto in Italia al momento della sua uscita, Ladri di biciclette ha un grande successo internazionale, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti. Il critico francese André Bazin, fondatore di una delle più importanti riviste europee di cinema, i Cahiers du cinéma, parlerà del film come uno dei primi esempi di «cinema puro»: «niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema». Un cinema, cioè, in grado di presentare la realtà sociale sullo schermo senza più alcuna mediazione.
Durante la lavorazione del film, De Sica stesso ammetterà: «perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia?». Se la critica francese contribuisce a costruire un’aura mitologica attorno a Ladri di biciclette, anche la ricezione americana lo colloca di diritto nel pantheon del cinema europeo del dopoguerra. Il film arriva negli Stati Uniti un anno dopo la sua uscita italiana, nel dicembre 1949, dopo che uno dei più importanti produttori hollywoodiani, David O. Selznick, aveva provato a convincere De Sica ad entrare tra i finanziatori del film. La condizione posta dal produttore che Cary Grant dovesse esserne protagonista, assieme ad altre richieste considerate irricevibili dall’autore italiano, avevano fatto subito saltare l’accordo: De Sica, infatti, preferisce lavorare con attori non professionisti, utilizzando un budget limitato e senza il vincolo di una grande produzione verticale — in questo caso, addirittura, sceglierà di auto-prodursi grazie all’intervento di alcuni finanziatori esterni e alla creazione di un società di produzione fondata, a suo nome, per l’occasione.
Tuttavia, il “gran rifiuto” a Hollywood non impedisce a De Sica di vincere il premio come miglior regista dell’anno attribuito dal National Board of Review of Motion Pictures di New York, una delle più importanti associazioni di critici americani dell’epoca, oltre al premio Oscar per il Miglior film in lingua straniera, istituito come riconoscimento onorario l’anno precedente, sempre vinto da De Sica con Sciuscià.
Negli anni successivi la sua uscita, Ladri di biciclette influenzerà generazioni di cineasti di tutto il mondo, dal cinema francese e americano passando per quello asiatico e nordafricano. L’incredibile potenziale emotivo del film, unito alla capacità di portare con sé un messaggio umano e universale, fanno dell’opera di De Sica sì un indiscusso manifesto sociale del suo tempo, ma anche un film ancora in grado di far emozionare gli spettatori di tutto il mondo, parlando direttamente al cuore delle persone a distanza di settantacinque anni.
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