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Natalie Portman

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A volte per protestare non serve alzare la voce, basta una cappa e otto nomi di donna ricamati sul bordo di un sontuoso capospalla! Allora, il dissenso si indossa proprio come si fa con un abito e il gioco è fatto.

Il guanto della sfida viene lanciato da un palcoscenico blasonato all’indirizzo della platea e da lì rimbalza su media e social con la potenza virale dei tempi moderni.
Che sia sul Grande Schermo, sul palco di un festival o nella vita di tutti i giorni, non mancano gli esempi di come e quanto un vestito o un accessorio possano entrare dalla porta principale nel grande affresco del cambio dei Costumi, dei linguaggi, dell’immagine, dei modi di vivere e di comunicare. Abiti che si prendono la scena proprio come le protagoniste che le indossano.

È accaduto, ad esempio, nella notte degli Oscar con la cappa nera firmata Dior indossata da Natalie Portman. Un mantello minimal-chic ornato di lettere color oro scelto dalla bellissima Natalie che così ha portato sul tappeto rosso degli Oscar il suo personale disappunto, omaggiando le donne registe snobbate agli Academy Award della 92esima edizione.

La cappa aveva incisi sui bordi i nomi di otto registe non prese in considerazione quest’anno. Tra queste: Greta Gerwig (Piccole Donne), Lorene Scafaria (Hustlers) e Lulu Wang ( The Farewell).

La scelta di Natalie ci riporta metaforicamente ai duelli di cappa e spada. Nel ‘500, infatti, il piccolo mantello veniva usato dai nobiluomini sia per distrarre l’avversario che per colpirlo. Avvolto al braccio non armato veniva lanciato all’occorrenza. Anche Natalie in fondo ha sferzato il colpo in punta di fioretto avvolta nell’eleganza di una preziosa cappa in raso. “Touché!” Portman.

Ma per restare a questa ultima edizione – vinta da “Parasite” di Bong Joon-ho, primo lungometraggio in lingua non inglese a vincere l’agognata statuetta per il miglior film – anche Jane Fonda ha detto la sua attraverso un vestito e un cappotto.

La leggendaria protagonista di “A piedi nudi nel parco” con Robert Redford, si è presentata al Dolby Theater di Los Angeles con un abito di Elie Saab già indossato sul red carpet di Cannes nel 2014. Non solo ha scelto l’abito riciclato per uno dei palcoscenici più fotografati al mondo, ma lo ha accompagnato con un cappotto simbolo delle sue ultime proteste a favore dell’ambiente. Il doppiopetto rosso era infatti lo stesso che la Fonda indossava lo scorso ottobre a Capitol Hill, in occasione di una manifestazione di protesta contro il cambiamento climatico, durante la quale è stata anche arrestata. Hanno presto fatto il giro del mondo le sue parole: «Vedete questo cappotto? Avevo bisogno di qualcosa di rosso, sono uscita e ho trovato questo cappotto in saldo. È l’ultimo capo di abbigliamento che comprerò nella mia vita».

Che la scelta dell’abito sul red carpet faccia rumore si era capito anche due anni fa (e non solo) quando ai Golden Globes le attrici più note del pianeta si sono presentate con dress code (codice di abbigliamento) rigorosamente nero in segno di protesta nel pieno della bufera legata alle molestie del produttore Harvey Weinstein.

Lasciando Hollywood e andando indietro nel tempo, se consideriamo un momento storico in cui abiti e accessori hanno intercettato umori e cambi di costume, quello è il Sessantotto.

Le donne del Sessantotto e dintorni rompono le dighe anche attraverso l’immagine e i vestiti.

A cominciare dagli orli delle gonne che si accorciano. Non è un caso che uno degli emblemi di quella trasformazione fu la discussa minigonna nata a Londra in quegli anni ad opera di Mary Quant. Non è un caso che a diventarne l’icona fu la modella magrissima Twiggy.

Per dare la misura di quanto l’abito a volte faccia il monaco, l’emancipazione delle donne è passata anche dalle tasche.

Ai primi del Novecento le tasche sugli abiti femminili diventarono un simbolo di lotta per l’emancipazione femminile. Le parole della scrittrice  Charlotte Perkins Gilman  nel 1905  sul  New York Times sono esemplari: «C’è un aspetto di superiorità nell’abbigliamento da uomo ed è il fatto che è adatto alle tasche – scrive Perkins Gilman – Le donne devono portare le borse, a volte cucite agli abiti, a volte legate, a volte tenute in mano, ma una borsa non è una tasca».

Qualche anno più tardi in un altro articolo del  N.Y. Times  del 1910, veniva sottolineato come  i vestiti  delle  suffragette (le appartenenti al movimento di  emancipazione femminile  nato per ottenere il  diritto di voto per le donne; il termine deriva dalla parola  suffragio  nel suo significato di  voto),  fossero, invece, pieni di tasche. Si racconta che durante i loro cortei le manifestanti indossavano completi con otto tasche, di cui molte nascoste. Il costume e i costumi si evolvono ma negli anni Cinquanta le donne ancora lamentavano la mancanza di tasche; Gwen Raverat, intagliatrice nipote di Charles Darwin e membro del Bloomsbury Group, scrisse in quegli anni : «Perché non possiamo avere tasche? Chi lo proibisce? Abbiamo il suffragio femminile, perché dobbiamo ancora essere inferiori agli uomini?».

Come dire: a volte un dettaglio non è solo un semplice dettaglio, ma mette insieme forma e sostanza. Allora la rivoluzione si può anche mettere in tasca.


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