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«La prima volta che sentii parlare di Angelopoulos fu alla fine degli anni ‘70 quando rimasi incantato dalla visione del suo capolavoro, “La recita”, che vidi in una sala d’essai a Bologna dove frequentavo il DAMS. Poiché dovevo decidere l’argomento della tesi, pensai di occuparmi di questo film e il mio docente di filmologia, Gian Vittorio Baldi, fu d’accordo al punto da suggerirmi di fare l’analisi strutturale di una sequenza a mio piacimento. Ne scelsi una che durava tre minuti basata su tre panoramiche circolari di trecentosessanta gradi senza stacchi interni. Recuperai il film alla cineteca, durava quattro ore circa, portai la pellicola nella saletta moviola del DAMS, vidi e rividi il film dieci volte e alla fine scrissi la mia tesi. Dopo aver conseguito la laurea, Baldi mi propose tre possibilità: lavorare con lui, iscrivermi al Centro Sperimentale a Roma o partire per la Grecia con una sua lettera di presentazione per fare l’assistente volontario sul set di “O Megalexandros” (Alessandro il Grande), il nuovo film di Angelopoulos. Era l’autunno del 1980. Scelsi di andare a conoscere di persona il mio amato regista e ne divenni incredibilmente assistente volontario».
Inizia così il racconto che Maurizio Paparazzo, regista calabrese, fa per Mimì ricordando la doppia esperienza sul set con Theo Angelopoulos, Palma d’oro a Cannes per “L’eternità e un giorno” (1998) e Leone d’Argento al festival del cinema di Venezia per “Paesaggio nella nebbia” (1988). I ricordi riaffiorano vividi ancora oggi con la morte recente di Omero Antonutti protagonista principale proprio di “O Megalexandros”, film che il cineasta – figura emblematica del “Nouveau cinema” greco – ambientò ad Atene agli inizi del Novecento.
Ecco la sequenza di quella strana primavera innevata sulla montagne della Macedonia così come la vide un allora giovanissimo Paparazzo.
Giungevano voci che come location per le riprese Theo Angelopoulos aveva scelto un villaggio vicino Kozani, un borgo montano che i pastori abitavano durante l’estate con le loro greggi, mentre in inverno era disabitato totalmente per via del freddo e della neve», ricorda il regista calabrese che in seguito lavorerà anche al fianco di attori e registi come Klaus Maria Brandauer, Sergio Castellitto, Alberto Negrin e girerà tra gli altri “Terra d’amore” dell’84 (menzione speciale al Festival del Cinema di Torino) e “My land” del 2010 (miglior film fuori concorso al festival di Lecce).
«L’ufficio di produzione del film era in un albergo a Kozani dove conobbi la moglie di Theo Angelopoulos, Fhoebe, che fungeva da produttore esecutivo» – prosegue Paparazzo – «Mi presentai e spiegai il motivo del mio viaggio dall’Italia. Rimasi in hotel qualche giorno. Poi, quando Angelopoulos diede il suo benestare, mi affidarono a un camionista che portava il cibo e tutto quanto indispensabile al set, quindi partimmo alla volta del villaggio tra le montagne della Macedonia. Ricordo che il camion era talmente carico che dovetti portare la mia valigia sulle gambe per una sterrata che si inerpicava in un paesaggio nebbioso e con precipizi da far paura. Il villaggio era costituito da casette in pietra ed era affascinante a prima vista. Scoprii che non c’era elettricità e acqua corrente nelle case che erano spoglie, fredde e con i bagni alla turca all’esterno. Scoprii anche che praticamente ogni componente della troupe poteva abitare una casetta. Per gli attori come Antonutti erano stati portati tappeti e cuscini per rendere più confortevoli gli ambienti».
Theodòros (questo il vero nome di Angelopoulos che in greco vuol dire “dono di Dio”, ndr) «era seduto in quella che doveva essere la locanda del villaggio e stava studiando la sequenza da girare disegnando schizzi su un foglio. Entrai, salutai e gli consegnai la lettera di Baldi. Lui la lesse e in francese mi disse che potevo restare nel villaggio per quindici giorni. La situazione della produzione era difficilissima. Qualche giorno dopo le comparse del film bloccarono le riprese perché non venivano pagate e perché c’era poco cibo per tutti (solo latte, olive e formaggio). Io mi sistemai con un gruppo di attori che facevano i banditi nel film. Dormivo nel sacco a pelo con tutti i vestiti. La notte i “banditi” russavano e un poco di calore giungeva da stufette a cherosene. Il disagio, il freddo e la fame erano tuttavia compensate dal poter assistere alla preparazione delle riprese, ai lunghi carrelli, alla maestria con cui Theo Angelopoulos organizzava i movimenti di macchina e quelli degli attori. Conobbi anche Ghiorghios Arvanitis il direttore della fotografia e attori italiani che erano nel cast, come Laura De Marchi. Fui accolto con simpatia da tutti e Theo Angelopoulos mi fece fare la parte di un giornalista giunto per fotografare il protagonista di “O Megalexandros”. Era molto esigente e creativo sul set. Si arrabbiava quando gli aiuti registi sbagliavano, ma poteva contare su collaboratori come Arvanitis e il capo macchinista che erano straordinari. Quando mi incontrava la mattina mi sorrideva sempre e mi chiedeva in francese come stavo. Ricordo il silenzio magico tra quelle montagne innevate quando diceva: pame! (andiamo), ghirìzume! (giriamo), moteur! (motore). Da quell’istante in poi cominciavano movimenti di macchina e di attori che mi facevano sentire partecipe di un atto creativo bellissimo, indimenticabile».
Memorie e dettagli che s’inseguono nella narrazione senza che il trascorrere del tempo li abbia scalfiti. Anzi. «Notai che quando si radeva Theo dimenticava di sciacquarsi bene la faccia e che un piccolo strato di schiuma gli restava sempre vicino ai lobi delle orecchie. Una distrazione strana per uno che prevedeva tutto a tavolino. Un dettaglio che a distanza di tempo mi è venuto in mente, nel 2012, quando appresi che era stato investito da un motociclista mentre attraversava la strada».
Poi arrivò “Viaggio a Citera” (1984). «Circa un anno dopo rividi Angelopoulos a Roma a casa di alcuni amici attori. Theo stava preparando il suo nuovo film, “Viaggio a Citera”, con Giulio Brogi. Parlammo del film in preparazione e, con mia immensa gioia mista a stupore, mi invitò ad andare in Grecia per il periodo delle riprese che si sarebbero fatte in autunno e inverno. Unica condizione questa volta era quella di pagarmi il viaggio in aereo. Per il resto sarei stato a carico della produzione. Accolsi la proposta e nell’autunno inoltrato ero a Salonicco sul set. Theo mi disse di non stare ai margini del set durante le riprese come era successo per “O Megalexandros”, ma di prendere parte attiva al film vicino a lui. Non me lo feci ripetere due volte! Purtroppo, nel corso delle riprese Angelopulos cadde e si ruppe una gamba. Eravamo sotto Natale e la produzione decise di aggiornare la lavorazione a dopo il periodo natalizio. Le cose andarono per le lunghe. All’inizio del nuovo anno non si sapeva ancora nulla di quando avremmo ripreso il film. Passarono altri mesi, finché ebbi una proposta di lavoro dalla Filmalpha di Mario Gallo e abbandonai mio malgrado l’idea di tornare in Grecia…».
Frammenti di una storia cinematografica che con un balzo in avanti ci portano al 24 gennaio del 2012: quel giorno Angelopoulos muore dopo essere stato investito da una moto mentre attraversava la strada ad Atene, vicino al porto del Pireo.
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