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Il Museo del Louvre

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PENSARE, nell’Italia dei Comuni e dei Ducati e delle Repubbliche (da Venezia a Mantova, a Ferrara, a Urbino, a Lucca), di prendere una sola opera per un grande (quanto insensato) museo nazionale (a Roma) sul modello del Louvre, del British, o del MoMa (bastano e avanzano gli “Uffizi”, denominazione deliziosa, insostituibile e incredibilmente moderna), è il più clamoroso errore “culturale” in nome della cultura che si potrebbe compiere. L’ha già fatto, senza misura, e pensando Parigi capitale del mondo (come non fu, e come non è), Napoleone, rubando ciò che non era della Francia, ma dell’Italia, e costituendo un grande museo dell’arte italiana fuori d’Italia, e una sua succursale di alte opere depredate, a Milano, Brera.

Dovremo ripeterlo a Roma? La maggior gloria del British è un’altra prova di forza del colonialismo culturale: i marmi del Partenone. Quanto al MoMa, esso è la conseguenza della moderna egemonia economica (e quindi culturale) degli Stati Uniti. La grandezza dell’Italia, diversamente unita, commemora egemonie passate: dei Medici, del Papato, della Repubblica di Venezia, dei Gonzaga, degli Estensi,dei Montefeltro, che hanno determinato potenti realtà culturali locali che, sommate insieme, prima del tardo e contraddittorio Risorgimento, hanno costituito il Rinascimento. Il Rinascimento italiano, sì. Inunificabile in un unico centro, fosse pure Roma. L’ Italia non è la Francia, e Roma non è Parigi.

La cultura francese è centripeta, quella italiana (per così dire) è centrifuga. La sua identità potrebbe aver senso solo per la pittura dell’Ottocento, per la quale c’e un grande, e sommerso, museo che è, a Roma capitale appunto,la Galleria nazionale d’arte moderna. Museo sepolto, da scavare, come spero. Che senso avrebbe, oltre quello che ha fatto lo Stato pontificio, occupando Ferrara dal 1598, portare pittore ferraresi a Roma (strabocchevole di Ortolano e Mazzolino e Garofalo, ignoti a Cerasa); o cremonesi (Bernardino Campi), o parmigiani (Correggio, che a Roma non venne neppure in vita), o bolognesi ( più di quanto già furono romani, Carracci, Reni, Domenichino, Guercino) o urbinati ( Barocci). Un museo nazionale per un Barocci in più? E rubandolo da dove? Da Firenze, poi, non potrebbe arrivare nulla, essendo la capitale culturale italiana, codificata nella lingua dal Bembo e nell’arte dal Vasari, avendo già il suo Grande Museo Nazionale ( ben più del meticcio, multiculturale e universalistico, Louvre) negli Uffizi.

L’Italia è plurale, e intoccabile, aliena da qualunque centralismo, e la sua cultura diffusa, a Padova (Giotto, Mantegna, e non abbastanza ne restano), Ferrara (Cosme’ Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti, Dosso Dossi), Bologna e la Padania, Sansepolcro e Arezzo (Piero della Francesca, Camerino (Giovanni Boccati), Siena (Duccio, Lorenzetti, Simone Martini), Pisa (Nicola e Giovanni Pisano); e poi Napoli (Farnese e Borboni), la Calabria, la Sicilia ( per di più, statutariamente, autonoma). Portare l’ “Annunciata” di Antonello a Roma? Diversa l’idea di un museo, del mosaico dei musei d’Italia (ben più stimolanti, nelle diverse aree geografiche, del Louvre), in un paese arabo, come, attraverso i depositi sconfinati, il Louvre di Abu Dhabi.

Da tempo io penso a Brera (il nostro piccolo Louvre) nel paese più aperto alle diverse religioni, che è il Bahrein. Brera, ovvero Milano in Bahrein. E qui si può convenire, per la quantità di opere invisibili che potrebbero essere viste altrove, e non solo nel mondo arabo. Insomma, un Louvre o un British in Italia non hanno senso.


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