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Nino Migliori

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Scrivere con la luce. Se è questo – come la millenaria saggezza che l’etimologia custodisce per noi, spiega – il senso autentico di “fotografia”, allora la scrittura di Nino Migliori è una “fotocalligrafia”. È questo, ai miei occhi, ciò che rende il suo creare e ri-creare assolutamente unico. Non parlo, però, della bellezza così come, comunemente, la intendiamo. Parlo di qualcosa che, allo stesso tempo, la genera e la trascende.

Il fatto, innanzitutto, che Migliori “scriva a mano”, restituendo al mezzo la sua funzione di mezzo, e liberandolo, quindi, dalla pretesa di trasformarlo in fine, come vuole chi cerca di convincerci che l’arte sia tecnologia (che è cosa diversa da) e non – poesia – e che, derivando da , significhi “fare”, “produrre”, “creare”.

Scrivendo a mano, inoltre, nessuna “lettera” – e, di conseguenza, nessuna “parola” – può essere identica a sé stessa. Possiamo scrivere mille volte la stessa parola – nel caso di Migliori, la stessa immagine – ma non riusciremo mai a ottenere due grafie assolutamente identiche. Così come identici non sarebbero mai due sguardi, nemmeno se si posassero sullo stesso oggetto – nel nostro caso, statue, busti, bassorilievi – dalla stessa posizione e nelle stesse condizioni di luce, a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro.

Ciò che sosteneva Eraclito a proposito del fatto che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, dunque, vale anche per la calligrafia e, quindi, la fotografia di Migliori. Questo, ancora di più perché, per “scrivere a mano”, Migliori ha scelto – e credo risieda qui il cuore della sua – un “inchiostro” che nessuno usa più da molto tempo: la luce di una candela.

Una luce che, per la sua natura incerta, mutevole ma, soprattutto, timida – si offre, senza imporsi; illumina, senza cancellare completamente il buio, rivela, senza accecare – somiglia all’inchiostro nel quale si intinge il pennino di una stilografica. Un binomio, inchiostro e pennino, che – per varietà di tratto, consistenza, densità, sfumature – consente di dar vita a combinazioni espressive infinitamente più varie, ricche e affascinanti di quelle alle quali sarebbe possibile dare vita scrivendo con una semplice biro o utilizzando gli anonimi e inespressivi caratteri di un programma di scrittura.

Tra luce e buio si crea, così, quella che, assai felicemente, mia sorella Elisabetta ha definito una “lotta continua” tra due dimensioni che “si rubano continuamente il confine”.

Un vitale, letteralmente, grazie al quale – nell’arte di Migliori, così come nella cinematografia di Elisabetta – buio e luce, definendosi reciprocamente, danno vita alla realtà; realtà che, in assenza dell’uno o dell’altra, non potrebbe mai vedere la luce. Le opere di Migliori non si osservano né si contemplano: si leggono, scoprendo ogni volta – tra righe che non smettono mai di cambiare sotto il nostro sguardo – non solo un nuovo senso, ma un’opera nuova. Cosa che appare, con straordinaria potenza, nel caso del magnifico volto del San Domenico di Niccolò dell’Arca, pezzo portante della Fondazione Cavallini Sgarbi, acquistato da me, con la determinante complicità del genio di mia madre, Rina Cavallini.

Opera prediletta di mio padre Nino, per la severità e l’austerità che esprime (sono in molti a sostenere che somigliasse a mio zio Bruno, intellettuale tra i più colti e raffinati del nostro Novecento), magistralmente “riscritta”, pochi mesi fa, da Migliori, nella casa dei miei genitori a Ro Ferrarese. Guardando queste immagini a “Lume di candela”, ci coglie il sospetto che, spesso, l’arte di Migliori migliori l’arte. Che migliori noi, invece, è, certamente, più di un sospetto.


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