"I segni del tempo" (2010) di Luciano Ventrone (foto www.artribune.com)
3 minuti per la letturaAPRE lunedì 14 giugno, nel polo museale Antonio Cordici di Erice, per iniziativa della Fondazione Ettore Majorana, con Giordano Bruno Guerri, Soprintendente e Alberto Samonà assessore alla Cultura della Regione Siciliana, la spettacolare mostra “La vittoria della pittura”. Per dimostrare un teorema così difficile occorrevano due artisti campioni, per invenzione e per virtuosismo. Accostare Giorgio De Chirico a Luciano Ventrone è audace, ma assolutamente coerente e conseguente.
A distanza di 100 anni dalle estreme e assolute prove metafisiche della prodigiosa fantasia dechirichiana, certamente nessuno sembra aver realizzato in modo più compiuto di Ventrone i propositi del “pictor optimus”. L’affermazione di Ventrone nel nostro tempo, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, poco dopo la morte di De Chirico, è la vittoria della pittura.
Comunque la si veda, comunque la si interpreti, la storia di De Chirico è stata il rifiuto di qualunque scorciatoia, alternativa, sperimentazione; e di qualunque trasformazione della pittura in gioco o trovata. Ciò a cui l’aveva ridotta, tra provocazioni e performances, l’avanguardia. E, dopo averne rappresentato la punta più avanzata con la Metafisica, De Chirico, tra citazioni e rimandi, ritorna alla pittura, si ispira ai modelli classici, a Rubens, a Velasquez, nei generi del ritratto, della natura morta, del paesaggio.
Quando il mondo stava cambiando, alla metà del secolo scorso, De Chirico si fece garante di un gruppo di coraggiosi, “I pittori moderni della realtà”, destinati alla sconfitta. Sono, con i consacrati ma già declinanti Gregorio Sciltian e Pietro Annigoni, Carlo Guarienti, Antonio e Xavier Bueno, Alfredo Serri, Giovanni Acci.
Fu un’esperienza che oggi appare straordinaria, testimoniata da rari capolavori dimenticati o dispersi; e, da lì , con la segreta sopravvivenza di esperienze episodiche di personalità autonome, la pittura di figurazione, rispetto ai gruppi dominanti di neoavanguardia, ha avuto un percorso carsico fino al 1978 quando, apparentemente sconfitto e deriso, De Chirico se ne va, e Ventrone appare, con la sorpresa e il giubilo di Federico Zeri e Antonello Trombadori. Forte e determinato, inizia a dipingere, con la tecnica e il magistero della grande pittura, formidabili nature morte, in un crescendo sorprendente che va oltre il realismo e l’iperealismo.
Ventrone spariglia, stupisce, aumenta la realtà e la supera, lascia alle sue spalle vittime che hanno tentato di ostacolarlo. Avanza con lo stesso vessillo che fu di De Chirico, e vince ogni confronto e ogni sfida, odiato e adorato. Ma conquista quello spazio che a De Chirico fu precluso, immaginandolo involuto in una irrimediabile decadenza (cui oggi si guarda con rinnovato interesse), o ripetitività. L’ultimo De Chirico sarà incompreso e compatito. Ventrone, accentuandone le caratteristiche, è rispettato e ammirato, domina il suo spazio e fa scuola. Ha fatto rivivere, fra riserve e mugugni, la dignità della pittura figurativa.
Così oggi, nel tempio di Erice, può ottenere la palma della vittoria. Per offrirla, sul podio del vincitore, alla memoria di De Chirico, vincitore morale. Dalla sua solitaria “Natura morta” del 1966, dopo una lunga traversata nel deserto, si arriva al trionfo delle illimitate, rutilanti, iperboliche nature morte di Ventrone, una festa per gli occhi, un trionfo della pittura. La vittoria, finalmente, in un silenzio implacabile.
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