Caravaggio, “Martirio di sant’Orsola” (1610); palazzo Zevallos Stigliano a Napoli
3 minuti per la letturaIn tempi difficili appare come un’oasi di felicità la nascita di una Fondazione volta alla raccolta di opere d’arte , specificamente napoletane. Si tratta della fondazione “De Chiara De Maio”. Curatore e ideatore è Vincenzo De Luca , uno studioso febbrile e curioso , mosso da un entusiasmo di ricerca contagioso. Così deve essere stato per l’amico Diodato De Maio che ha realizzato, e continua, l’impresa con ammirevole vitalità. Presto quelle opere, raccolte sotto l’insegna “Monne e Madonne, Il corpo e le virtù femminili” , potranno essere viste nel nobilissimo spazio della Cappella Pontano a Napoli e della Cappella del Santissimo Salvatore nella Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, in via dei Tribunali.
Sono gli spazi ideali per una collezione selezionata che va da Marco Pino a Francesco Solimena, prede di una caccia intelligente e inevitabile.
Ricca di riferimenti a Michelangelo è la tavola con il “San Michele Arcangelo” di Marco Pino che si attesta come il più importante manierista attivo a Napoli, con citazioni e ricordi del Bronzino e di Daniele da Volterra.
De Luca ha cercato e selezionato opere intense e, come spesso accade nel mondo creativo napoletano, di forte impatto teatrale. Fra esse, testimonianza di una formidabile unità stilistica, “Il Martirio di Sant’Orsola”, frutto della collaborazione tra Filippo Vitale e Pacecco De Rosa . Il riferimento resta ancora, pur alla metà del ‘600, il Caravaggio napoletano, quello della “Madonna del Rosario” e , naturalmente , del “Martirio di Sant’Orsola” ora in palazzo Zevallos Stigliano a Napoli. L’interpretazione di De Luca è puntuale:
“Sia in Caravaggio che in Vitale la santa è colta nella sua solitudine spirituale, serena nel proprio dolore, anzi spinta dalla sofferenza fisica verso una ricercata ascesi capace di disarmare le convinzioni dell’assassino. Nel primo la martire si chiude in se stessa, chinando il viso, e proprio tra le mani e il petto si concentra la luce proveniente la sinistra (sembra che da quel dolore stia partorendo la santità); luce che, con alta valenza simbolica, ne addolcisce le rotondità diventando invece fortemente spigolosa sui soldati. Il notturno caravaggesco si stempera in una luminosità più diffusa nel secondo; in Vitale, appunto, la santa cerca intimità volgendo gli occhi al cielo, offrendosi con il viso non di profilo (come in Caravaggio) ma quasi frontalmente, in un ovale dolcissimo aggraziato dalle ombre. L’azione che si sta consumando intorno a lei è dinamica, il movimento è caotico, il numero degli effigiati rispetto all’altra tela è raddoppiato. In Caravaggio gli occhi dell’osservatore si spostano dall’assassino al corpo della santa e li si soffermano, in Vitale la luce maggiormente uniforme e le diverse azioni cruente (una vergine a destra colpita in petto da una freccia, un’altra a sinistra trafitta da una spada) invitano a scrutare casualmente altro, l’intera scena che si muove dietro la santa”.
Pacecco De Rosa introduce una forza cromatica nuova che allontana la sofferenza e il dolore. Il martirio è superato nella beatificazione che è festa, non dolore.
Dalla notte di Caravaggio si passa, con Vitale e Pacecco, a una luce meridiana, uniforme, che accende ed esalta gli abiti e i veli variopinti.
La morte è lontana; il dipinto parla di una nuova vita.
Non meno notevole, sulla scia di Ribera, la tela con “San Sebastiano e le pie donne” di Luca Giordano: il corpo esangue del Santo ha una luce livida , che ci trasmette il freddo della morte, nei lampi della notte. Le due donne che rianimano San Sebastiano sono calde di vita e di passione. La composizione è perfetta: Luca intende documentare, irrompendo sulla scena del delitto, il dolore e la violenza. Irene non ha paura :si sono appena allontanati i carnefici e resta spazio per la pietà.
Mostra grande qualità nella composizione aerea anche la “Santa Rosa” attribuita a Paolo De Maio che affianca, con limpida tavolozza, i due bozzetti per la “Madonna del Rosario” e “La guarigione del padre di Tobia “ di Francesco Solimena. L’impegno e la ricerca hanno dato buoni frutti, e il patrimonio della Fondazione “De Chiara De Maio” integra le collezioni dei musei e delle chiese nella infinita città di Napoli.
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