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L’immagine che accompagna la presentazione della mostra “Le Corps et l’Âme De Donatello à Michel-Ange. Sculptures italiennes de la Renaissance” al museo Louvre di Parigi:

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ALCUNI amici entusiasti mi inviano fotografie, di formidabile desolazione, di intere sale degli Uffizi vuote, deserte. “Un sogno”, scrive l’amico. Una disperazione, penso io. E altre immagini arrivano da Parigi. Deserto anche il Louvre, dove ha inaugurato la mostra da me più agognata, “Le Corps et l’Âme – De Donatello a Michel Ange – sculptures italliennes de la Renaissance”, 140 opere , alcuni assoluti capolavori, in collaborazione con il museo del Castello Sforzesco di Milano, in un percorso in cui si incrociano Luca Della Robbia e Agostino di Duccio, Tullio Lombardo, e, fra gli altri, Nicolò Dell’Arca. Il San Domenico, che io trovai nel 1984 e che oggi rappresenta, propriamente, l’anima della Fondazione Cavallini Sgarbi. La felicità, l’orgoglio di vedere un’opera tanto amata al Louvre mi imponevano di partire, di camminare nelle sale del Louvre con le ali ai piedi.

Invece, castigati da un morbo contagioso, siamo rimasti a casa, in una rinnovata clausura, lasciando nella prevista solitudine anche le opere più care. Il Louvre deserto, desolato, è stato attraversato, con passo lesto ed euforia crescente, dal mio giovane assistente Alessandro Bertazzini che ha accompagnato devotamente il San Domenico e lo ha visto collocare nella sua nicchia, con emozione crescente . E intanto arrivavano a casa fotografia delle stanze vuote, della triste solitudine delle statue. Malinconia di tempi di paura.

Fin dal primo giorno della clausura, imposta nel mese di marzo, interrogai il governo per chiedere di non tener chiusi i musei, ritenuti beni essenziali e primari, nei quali, con le convenienti distanze, si sarebbe potuto coltivare lo spirito senza rischio per i corpi . È capitato invece il contrario: che non si sono salvati i corpi, e  si sono perdute le anime. È, singolarmente, in questi tempi tristi, il titolo della mostra parigina: “Les Corps et l’Âme”. Nella bella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, Nicolò Machiavelli parla del suo rapporto con i classici, con la loro anima, che esce dalla letteratura come dalla pittura e dalla scultura, è ciò che dà senso alla nostra vita: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro”.

Tra i tanti dubbi e inquietudini, c’è anche la rassegnazione alla rinuncia della bellezza e delle emozioni. Come si sono spente le preghiere, mortificato il nostro rapporto con Dio, la nostra mente è occupata dal pensiero della malattia che invade ogni nostro spazio, togliendoci il desiderio. Difficile altrimenti spiegare la diserzione degli spazi della bellezza. Ciò che potrebbe darci conforto e consolazione è considerato superfluo. Si è come interrotto il rapporto di fiducia fra gli uomini e il mondo , ognuno pensa a sé. A un concerto di Pollini al Teatro Comunale di Ferrara, l’ansia per la salute, l’ossessione per le misure di protezione erano  più forti del piacere della musica. Una signora scrive: “L’altra sera mi trovavo al Teatro Comunale per il concerto inaugurale della stagione di Maurizio Pollini. Accompagnavo mio padre novantenne e disabile in sedia a rotelle, pertanto ci è stato assegnato un centralissimo palco al secondo piano. Al nostro fianco sedeva l’onorevole Sgarbi con un paio di accompagnatori. L’onorevole è entrato in palco senza mascherina, per poi indossarla lasciando scoperto il naso, e ritogliersela allo spegnimento delle luci. All’intervallo, l’onorevole continuava ad aggirarsi senza mascherina, e ad una mia osservazione che portare la mascherina era necessario per il rispetto di tutti, lui mi ha autorevolmente zittita invitandomi ad andarmi a leggere il dpcm, che io certamente non avevo letto o capito bene, in quanto la mascherina non è necessaria se distanziati di almeno un metro. Sgarbi e i suoi accompagnatori se ne sono poi andati a metà del secondo tempo, dopo essere entrati ed usciti diverse volte dal palco ed aver rumoreggiato e tenuto accesi gli schermi dei telefoni per la durata della loro permanenza in sala. A quel punto noi comuni cittadini che avevamo comprato i biglietti, abbiamo potuto ascoltare gli ultimi quindici minuti del concerto del Maestro senza essere disturbati e finalmente in sicurezza. Credo che questa storia si commenti da sola”.

Ho risposto con tristezza  e malinconia: “In tempi difficili, invece che l’amore per l’arte e per il prossimo, con ogni comprensibile  prudenza, gli animi si accendono anche di fronte a bisogni inesistenti, generando figure sopite in tempi normali. Nel tentativo di colpevolizzarmi, la delatrice aggiunge, come una colpa, il riferimento agli schermi accesi dei telefonini (il mio certamente), dimenticando che, in molti teatri, su schermi luminosi retrostanti gli schienali, corrono le parole delle opere liriche per consentire una maggiore consapevolezza delle trame. È ovvio che lo schermo acceso non disturba l’audio di una sonata per pianoforte. La delatrice esclude che, a fronte di norme insensate e illiberali come portare la mascherina in automobile guidando da soli, uno possa usare la propria testa, pur salvaguardando la propria salute e quella altrui. Ai furbetti e maliziosi, si intendeva dire, un tempo: “Ti conosco, mascherina!”.

Voglio aggiungere che ero a Ferrara per accogliere il maestro Pollini, in qualità di Presidente di Ferrara Arte, e in assenza del Presidente del Teatro e del Presidente di Ferrara Musica, ai quali avevo  raccomandato di invitare Muti e Pollini. Probabilmente senza il mio intervento, di quel “potere “che la delatrice intende stigmatizzare,  non avrebbe avuto l’opportunità di ascoltare il maestro Pollini la cui interpretazione, per una mente libera, non è certo disturbata da una porta aperta e da uno schermo di telefono. Talvolta, invece di delare, si può anche ringraziare. Non sempre il potere è cattivo; il mio è certamente sano”. Tristi tempi, musei vuoti, animi spenti. Non basta neanche Beethoven.


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