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Tutti dentro la bolla sociale della crescita continua tesa ad allargare senza termine le potenzialità della vita delle persone. Ma le bolle prima o poi scoppiano


Ciò che è accaduto negli ultimi cinquant’anni circa, anche in termini di mutamento sociale, è paragonabile ad una sorta di salto quantico. Uno degli obiettivi primari è stato certamente quello di allargare le potenzialità della vita delle persone, e indubbiamente è stato raggiunto. Per un bel po’ di tempo, il mantra della crescita continua e costante è stato praticamente legge e cultura allo stesso tempo, ispirando comportamenti e dettando strade da percorrere senza timore alcuno. In fondo, pareva trattarsi di un modello win-win, dove tutti risultavano vincitori. Andava bene per noi occidentali, che abbiamo avuto a disposizione beni a miglior costo e quindi più accessibili (oltre al grande vantaggio di poterci muovere in tutte le direzioni ipotizzabili del mondo); ma è andata bene anche a una parte degli abitanti del sud del mondo, che a loro volta hanno potuto avere accesso a risorse neanche immaginabili fino ad allora.

Ma l’elenco dei vittoriosi è lungo. Le imprese che hanno generato profitti a gogo, la finanza che ha vissuto momenti di vera e propria magia. La politica che ha riscosso – in termini di consenso e quindi di potere – tutti i vantaggi da questa situazione che pareva scaturire dal nulla. Una meraviglia. Cresce, cresce, cresce e va bene per tutti e per tutte. Si sono poste li le condizioni per un radicale cambio di prospettiva rispetto alle società. Non lo sapevamo, o facevamo finta di non saperlo, ma non poteva durare in eterno. Eppure, come sempre accade nei sistemi complessi – e i sistemi sociali sono sistemi complessi e come tale vanno analizzati – i processi entropici di riequilibrio dei sistemi stessi si sono manifestati con regolarità puntuale.

La ricerca di un naturale riequilibrio basato sull’entropia – che nel nostro caso si è avviluppata anche ad una sorta di antropia – ha prodotto una serie di terremoti nel tentativo di ristabilire un ordine delle cose. Che si tratti di bolla finanziaria, di crisi economica, di guerra o di sindemia cambia poco il senso del discorso. Quello che conta è che in un sistema così com’era congegnato prima, ad un certo punto le cose evolvono in una direzione (erroneamente percepita come inattesa) che scuote il mondo come fosse un fuscello in una tempesta di vento. Perché nella loro ricerca di equilibrio i sistemi cercano le vie migliori (per l’intero, non per l’umanità). E spesso si trovano di fronte a vere e proprie biforcazioni di percorso. Una sorta di bivio davanti al quale bisogna scegliere la direzione, come ci ha insegnato il fisico Prigogine presentando i suoi studi sulle strutture dissipative.

È già successo molte volte, e succederà ancora se facciamo finta che sia stato un caso. La scelta non avviene a caso, ma risponde a precise richieste del sistema, pur tenendo conto dell’entropia.
Il problema nasce, però, sul modo in cui ci si adegua, in qualche modo, a tener conto di queste eventualità. Come abbiamo reagito difronte all’evidenza di alcuni shock veri e propri, che hanno fatto vacillare i modelli pre-esistenti? Come organizzare la risposta, in fin dei conti?

Il nuovo orizzonte, da qualche tempo, pare essere caratterizzato da due parole chiave precise: digitalizzazione e sostenibilità. Questa la duplice risposta al messaggio che richiede cambiamento di rotta per evitare nuovi, pericolosi shock mondiali. Quello della sostenibilità è diventato un imperativo sempre più impellente, di anno in anno. Se fino a qualche tempo fa si pensava di dover intervenire per preservare il futuro delle nuove generazioni (“una terra vivibile per i nostri figli e nipoti” era uno degli slogan degli ambientalisti di qualche decennio fa) oggi l’accelerazione subita dall’inquinamento e dal degrado rendono il tempo di decisioni praticamente impellente. Bisogna farlo oggi. Stamattina. Nel pomeriggio sarà già troppo tardi. Come? Certamente non come si sta facendo.

La sostenibilità non è assolutamente, così come viene intesa oggi, un fatto tecnico-burocratico, quanto piuttosto un fatto sociale e culturale. E così, mentre incidentalmente chi decide risponde ad altre logiche – di mercato, elettorali, di corporazioni, spesso anche in un pericoloso mescolamento fra tutti questi aspetti – e il discorso fluttua nel tempo sui tavoli delle trattative politiche fra parti contrapposte e continenti in lotta per primeggiare, nessuno dice quello che va detto: la sostenibilità non riguarda i mercati, non è un fatto tecnico che ci riguarda di rimbalzo. La sostenibilità è imprescindibilmente legata ad un radicale mutamento di abitudini a livello individuale. E come tale va sostenuta con un massiccio intervento di cultura, innanzitutto. Oggi, se guardiamo la televisione o ascoltiamo i proclami, non c’è nessuno che non sia d’accordo con la sostenibilità. Tutti, ma proprio tutti, sembrano andare in quella direzione. A parole.

Come ci si mette la coscienza a posto rispetto alla sostenibilità? Spesso, con la misurazione. Con questa sorta di ancora di salvataggio che risponde al concetto – ossimorico – di valutazione oggettiva. Che è appunto un ossimoro, perché la valutazione oggettiva non esiste. Costruiamo indici su indici per garantire provvedimenti che dovrebbero essere oggettivamente i migliori possibili. Purtroppo (per chi decide), qualsiasi sistema di valutazione ha alla base un impianto teorico da quale deriva, come una sorta di madre ideologica. Questa non è certo una novità dell’ultima ora. Se si pensa che nei primi anni del nuovo millennio un importante istituto di ricerca internazionale, composto da economiste note per aver posto (e fatto inserire in agenda) il tema del debito internazionale al G7, ha posto in luce come, mutando, la prospettiva, la valutazione delle professioni, per esempio, dovesse essere ribaltata rispetto a come la intendiamo noi.

Accade così che, considerando e quantificando il contributo al benessere delle società – quantificando il valore sociale, ambientale ed economico – di alcune professioni, a scopo di esempio, gli operatori ecologici contribuiscono con il proprio lavoro alla salute dell’ambiente anche grazie al riciclo delle immondizie, mentre i fiscalisti danneggiano la società perché studiano in che modo far versare ai contribuenti meno tasse.

Quindi i primi dovrebbero essere pagati molto di più e i secondi molto di meno. La valutazione, insomma, è in prima istanza un problema teorico, e solo successivamente diventa un aspetto tecnico. Altro che oggettiva. Per non dimenticare, poi, che il vero problema della sostenibilità – lungi dall’essere tecnico – è in realtà quello che l’impatto della transizione è in realtà asimmetrico, tanto a livello globale quanto delle singole nazioni. Perché, come da sempre, è sui più fragili e deboli che si addensa il costo delle operazioni. E quindi sostenibilità sia, ma con effetti paracadute sulle fasce più deboli.

Accanto alla sostenibilità, come accennato, l’altro imperativo individuato è quello della digitalizzazione. La digitalizzazione offre numerosi vantaggi, come l’accessibilità, la velocità e l’efficienza nella gestione delle informazioni. Tuttavia, presenta anche rischi significativi rispetto alla possibile perdita di informazioni qualitative. Perché spesso richiede la standardizzazione delle informazioni, operazione che può portare alla perdita di dettagli specifici e contestuali. Quindi decontestualizzazione, riduzione della complessità, perdita di nuance perché sfumature ed emozioni possono essere difficili da catturare e rappresentare digitalmente, sono tutti rischi concreti legati ai processi di digitalizzazione (sorvolando sulla gamma relativa da un lato alla qualità e obsolescenza dei metadati e ai problemi di privacy).

Ma il vero problema sta nella considerazione che la digitalizzazione comporta un eccesso di astrazione, i cui eventuali costi a carico sono noti anche se non sempre facilmente calcolabili. Diversi sociologi e studiosi hanno esplorato questa tematica, evidenziando come l’astrazione eccessiva possa portare alla perdita di dettagli significativi e al distacco dalla realtà concreta. Fra loro, Baudrillard ha esplorato come la società contemporanea sia dominata da simulacri e simulazioni. Suggerendo che l’iperrealtà creata dalla digitalizzazione sostituisce e distorce la realtà concreta. Mentre Turkle ha analizzato come la digitalizzazione influisca sulle relazioni umane e sulla comprensione del sé. Latour, invece, attraverso la teoria dell’attore-rete ha esplorato come le tecnologie e le reti influenzino la società, sottolineando che l’astrazione delle informazioni può nascondere le complessità delle reti sociali e materiali che le generano.

Infine, Castells, che ha scritto sulla società dell’informazione e le reti digitali, evidenziando come l’astrazione e la digitalizzazione trasformino le strutture sociali e la percezione della realtà. Nei suoi lavori, discute come la rete digitale possa creare una realtà virtuale separata dalla realtà fisica. L’eccesso di astrazione legato alla digitalizzazione, insomma, comporta diversi rischi, tra cui la perdita di contesto, la semplificazione eccessiva, la generalizzazione inappropriata e il distacco dalla realtà concreta. Per mitigare questi rischi, è allora essenziale adottare un approccio critico e consapevole nella digitalizzazione delle informazioni, che richiede una comprensione approfondita delle dinamiche sociali e culturali. Ci risiamo, insomma. La questione torna ad essere culturale e, in parte, anche educativa.

Il problema, però, è che nei fatti tanto la sostenibilità quanto la digitalizzazione sono principi e processi pensati dentro quella che è oggi la società, che è ciò che scaturisce dalla mancanza di approccio sistemico (e dal conseguente, imprevedibile, dover fronteggiare i “terremoti” che possono nascere come risposta di riequilibrio), dall’esito dell’evoluzione di rapporti liquidi nell’accezione baumaniana, dal lungo e pervasivo percorso di individualismo diffuso, dal lento processo di affievolimento delle pulsioni di desiderio legate proprio alla fine delle possibilità di crescita, che trasforma la società del benessere in una sorta di regressione sicuritaria.

Una società che ha visto nascere, crescere e fiorire populismi ovunque, una volta che, esaurita la spinta ad andare oltre, si trasforma la richiesta verso richieste di chiusure dentro muri e confini. Così articolata, somiglia in qualche modo ad una sorta di “società aumentata”, che non ha abbandonato l’idea di crescita pur se sostenibile. Una società aumentata che si basa su una triade di convincimenti e certezza che paiono non scalfibili. La tensione alla performance, all’efficienza, all’eccellenza (e che sconfina anche nella ricerca di un oltre i limiti naturali fisiologici) da un lato, il convincimento di essere al di là di qualsivoglia sovranità, pubblica o privata che sia, e per questo il diritto di dettare criteri di funzionamento che creano logiche di sottomissione e conflitto dall’altro.

Il tutto, terzo polo della triade, in una visione distorta (e anche qui, aumentata) della vita, vista in ottica unica e quindi ibrida, che mescola senza timore reale e virtuale, personale e pubblico, biologico e sociale, locale e universale. Una società che, così articolata, deve continuamente rincorrere problemi che essa stessa alimenta, in un circolo vizioso che tocca le vite di tutti noi.


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