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OVVIAMENTE tra i collezionisti, c’è chi colleziona francobolli, un grande classico, oggi forse un po’ in declino, e chi colleziona autografi, chi sarebbe disposto a spendere una fortuna per mettere le mani su un raro soldatino e chi venderebbe l’anima a Mefistofele per delle etichette di vino, quelle giuste, quelle che chiudono la serie dei vini cileni del 1973. E giù con coltelli, monete rare, tappi di bottiglie di birra, vinili, giocattoli d’epoca, vecchie locandine cinematografiche, automobili d’epoca, insetti, conchiglie, campanelle, orologi, ceramiche orientali e bambole di porcellana…
Anni fa conobbi un vecchio emigrato napoletano in California che collezionava tubetti di dentifricio. La casa ne era letteralmente invasa, ne aveva a migliaia e poteva contare su contatti fidati che gliene inviavano settimanalmente da molti paesi sparsi per il mondo. Letteralmente qualsiasi categoria di oggetti può assurgere ad oggetto da collezione – anche in funzione di caratteristiche estrinseche. Ad esempio, si possono collezionare vinili, ma anche andare sul sofisticato e specializzarsi esclusivamente in vinili appartenuti ad attori hollywoodiani, o coltelli utilizzati per commettere omicidi… Ma ciò che più stupisce, in fondo è che, il significato profondo della collezione, il suo senso, in realtà è per lo più indipendente da ciò che si colleziona.
Accumulare oggetti è un modo per dare ordine e significato al mondo, per costruirsi dei riferimenti. Attraverso la collezione, si costruisce una narrativa personale, una storia intima che parla di ricordi, esperienze e aspirazioni. Uno degli aspetti più intriganti delle collezioni è la loro infinitudine. Come sottolineava Jean Baudrillard, una vera collezione non è mai completa. Non deve esserlo. Per certi versi il grado della sua potenza è legata proprio non-finitudine: un gioco senza fine che riflette il desiderio umano di eternità. I collezionisti sono instancabilmente alla ricerca dell’oggetto mancante, quel pezzo che potrebbe avvicinarli alla perfezione, ma che, in realtà, è solo una tappa di un ciclo inesauribile di desiderio e acquisizione. È una danza perpetua quella che si compie tra i collezionisti e la loro collezione, dove ogni nuovo pezzo non è mai l’ultimo, ma solo un passo ulteriore verso un orizzonte irraggiungibile, come del resto ogni orizzonte. In questa “orizzontalità”, la collezione è dunque al contempo tormento e utopia, realtà e sogno, schiavitù e liberazione. La sua incompletezza, del resto, è anche una metafora della vita stessa: sempre sghemba e sempre in evoluzione, sempre mancante di qualcosa o qualcuno. Il “completamento della collezione” è dunque anche la sua morte simbolica, il suo radicale depotenziamento di funzione e di senso, la fine dell’incantesimo.
Nel suo saggio “Unpacking My Library: A Talk about Book Collecting”, Walter Benjamin descrisse le sue riflessioni sul significato dei libri che aveva raccolto nel corso degli anni, offrendo anche una visione più ampia del collezionismo come atto culturale e psicologico. Per Benjamin, collezionare è un modo per creare un ordine nel caos, per costruire una narrazione personale che conferisca senso e significato alla propria vita. I libri, in particolare, sono visti come portatori di storie e di memorie, non solo per il loro contenuto, ma anche per le circostanze e i momenti in cui sono stati acquisiti. Ogni volume in una collezione racconta una storia unica, legata a un momento specifico della vita del collezionista, diventando così una parte integrante della sua identità. La dimensione nostalgica del collezionismo è centrale nella riflessione di Benjamin. Egli vede i libri come àncore che fissano il passato, permettendo di rivivere momenti lontani e di preservare frammenti di memoria. Questa nostalgia non è solo un sentimento di malinconia, ma una forma di resistenza contro l’oblio e la perdita. Il collezionista, attraverso i suoi oggetti, cerca di mantenere vivo il passato, di creare un legame tangibile con la propria storia personale.
Benjamin sottolinea anche il valore rituale del collezionismo. Il processo di raccogliere, organizzare e curare dei collezionisti è visto come un rituale per certi versi sacro, in grado di generare un senso di controllo. In un mondo caotico e frammentato, insomma, il collezionista trova conforto e sicurezza nel suo microcosmo ordinato, dà forma e significato personali al mondo circostante, scaracchia in faccia all’omologazione del tutto, all’in-differenza (come mancanza di differenza). Come ha ben spiegato Byung-Chul Han, la società contemporanea si connota per la perdita della capacità di contemplare, di fermarsi ad osservare il dettaglio, l’apparentemente inutile, di fare pause, di riflettere, ingabbiata com’è in un incessante vortice di produttività e performanza. Gli fa eco Miguel Benasayag, secondo cui il nostro mondo è ossessionato del produttivismo e dall’efficienza, finendo per invertire mezzi e fini. Questo utilitarismo pervade ogni aspetto della vita, plasmando le persone in modo da valutare tutto in termini di utilità immediata. Una possibile via di fuga sta nella riscoperta della gioia del fare disinteressato e dell’utilità dell’inutile.
In fondo questo personaggio strambo e essenzialmente anti-contemporaneo, anacronistico, antiquato, che è i collezionisti, non fanno altro che “liberare” le cose dalla loro utilità funzionale, dalla razionalità rispetto allo scopo e/o dalla potenza comunicativo-simbolica così come codificate e imposte dal sistema, e caricarle di unicità, di compiutezza. In questo senso, quello dei collezionisti è un atto di resistenza meta-economico, contemplativo, di recupero della capacità di ritrovare l’incanto, l’abbandono, la follia del dettaglio inutile, anzi meta-utile e quindi, perciò, fondamentale. Il dettaglio d’altronde è tutto nel collezionismo, ne è l’anima stessa. Il collezionista è animato da uno sguardo infinitamente raffinato, dotato di un radar sensoriale che percepisce e valorizza quelle differenze infinitesimali e marginali che sfuggono alla percezione profana. I collezionisti selezionano non in virtù delle qualità evidenti e preponderanti degli oggetti, ma sulla base di particolari insignificanti, che essi solo, in quello specifico modo, riescono a scorgere e ad apprezzare nel disordine del mondo. Questo atto di elezione è radicato in regioni di senso che per lo più – per quanto alcune collezioni possano arrivare a valere cifre considerevoli – non hanno, nella loro essenza, nulla a che vedere con la produzione di valore e di utilità. E se la salvezza fosse nell’inutilità?
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