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Alzi la mano chi non ha mai pianto almeno una volta nella propria vita. Piangere è considerato assolutamente normale, fisiologico da parte delle persone: eppure, quello che a prima vista sembra una cosa del tutto normale e naturale in realtà ha motivazioni diverse ma soprattutto è una sorta di metalinguaggio che dice molto delle persone che piangono e delle realtà sociali in cui l’operazione del pianto prende corpo.
Il pianto ha certamente una consistenza biologica ma ne ha altrettanto certamente una socialmente e culturalmente determinata. Alcuni ricercatori sostengono che il pianto emotivo negli esseri umani potrebbe essersi evoluto proprio come un meccanismo di comunicazione sociale, che ha guadagnato significato emotivo nel corso dell’evoluzione. Secondo questa teoria, il pianto avrebbe acquisito un ruolo nell’esprimere le emozioni e stabilire legami sociali più forti tra gli individui.
Altri studiosi suggeriscono che il pianto emotivo negli esseri umani sia una conseguenza della complessità del nostro cervello e delle nostre esperienze cognitive. Poiché gli esseri umani hanno una gamma molto più ampia di emozioni e una maggiore consapevolezza di sé rispetto ad altre specie, il pianto emotivo potrebbe essere una manifestazione di questa complessità emotiva.
Tralasciando le lacrime basali e quelle riflesse, quindi, il tema resta quello di comprendere valori e significati attribuiti – singolarmente ma anche in maniera comunitaria – alle lacrime psichiche, quelle derivanti da un’intera gamma di emozioni possibili. Quello che molti studi scientifici affermano e sul quale vi è convergenza da parte di studiosi di diverse discipline è che il pianto risponde al bisogno di ripristinare un equilibrio psichico dell’individuo sottoposto a emozioni intense.
Molte ricerche anche su vasta scala svelano anche le principali ragioni per le quali si pianga: in una indagine su oltre tredicimila adulti di quaranta diversi paesi del mondo, è stato calcolato che oltre la metà delle volte il pianto sia dovuto a momenti di grande trasporto affettivo, e che invece nel trenta per cento dei casi sia legato al conseguimento di un importante risultato personale.
Le ricerche ci dicono anche che tendenzialmente le donne tendono a piangere con maggior frequenza degli uomini, e questo avvalora l’idea che anche il pianto sia culturalmente e socialmente determinato: in particolare, la frequenza sarebbe più pronunciata nei paesi con maggior libertà di espressione ma in cui le norme culturali sui ruoli di genere esercitano un’influenza più evidente, rispetto ai contesti nei quali, in generale, si piange di meno. Le norme sociali, insomma, disciplinano le modalità, le circostanze e le figure a cui il pianto è concesso, negato quando non, addirittura, espressamente richiesto.
Nell’occidente, per esempio, si tende ad associare il pianto maggiormente alla sfera della vulnerabilità e della femminilità, come peraltro emerge anche dalle indagini di cui abbiamo detto. Ma ciò accade anche in altre culture: come ci ricorda il filosofo politico e morale britannico Jonathan Parry, infatti, anche nella tradizione indù dell’India settentrionale l’espressione del dolore si strutturava secondo un ideale dicotomico di genere: l’uomo, in uno specifico modello “andropoietico”, non poteva vivere liberamente il proprio sentire. Le donne invece erano quelle a cui era permesso piangere sulle tombe dei defunti e lasciarsi andare a violente manifestazioni di disperazione.
Ma a rafforzare il concetto di azioni socialmente e culturalmente determinate, intervengono i casi in cui questa dicotomia maschile/femminile nell’uso delle lacrime per esprimere emozioni importanti non solo non viene rispettata, ma addirittura è ribaltata. Dalla letteratura omerica, per esempio, l’ideale di uomo-guerriero non pare assolutamente essere scalfita da comportamenti che vedono uomini forti abbandonarsi al pianto sfrenato, per rabbia, gioia e nostalgia a seconda dei casi. Ma anche nel profondo nord, nella zona della Carelia a scavalco fra Russia e Finlandia, dove era diffusa la tradizione del Lamento rituale, le donne piangevano con le parole, mentre toccava agli uomini piangere con gli occhi.
Le regole del pianto appaiono quindi plastiche, variabili, non universalmente valide, ma strutturate invece a partire da specifiche rappresentazioni di genere e di status. Per quanto riguarda sociologi e studiosi dei comportamenti sociali, ci sono stati diversi approfondimenti interessanti per quello che riguarda la gestione delle emozioni anche attraverso il pianto.
Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha analizzato le strutture sociali e i modelli di comportamento all’interno della società e sebbene non abbia scritto specificamente sul pianto, il suo lavoro ha influenzato gli studi sociologici sulle emozioni, comprese le stesse dinamiche culturali associate al pianto. Norbert Elias ha studiato l’interazione sociale e le dinamiche di potere nelle società umane: nel suo “La società dei individui”, ha affrontato il tema del pianto e delle emozioni nell’ambito delle interazioni sociali.
Il Sociologo statunitense, Thomas Scheff ha invece sviluppato una teoria dell’emotività umana e ha esplorato il ruolo delle emozioni nella vita sociale, occupandosi di connessioni tra emozioni, vergogna e pianto nelle interazioni umane, mentre la statunitense Arlie Russell Hochschild ha esplorato il pianto come forma di lavoro emotivo in determinati contesti occupazionali, come il lavoro di cura. Ma la risposta delle lacrime alle emozioni umane ha interessato ambiti scientifici plurimi.
Sono famosi gli studi dello psicologo Paul Ekman, che ha studiato le diverse tipologie di pianto e le loro connessioni con le emozioni specifiche, a differenza dello psicologo e neuroscienziato Randolph Cornelius, che ha invece studiato le basi neurologiche del pianto: la sua ricerca si è concentrata sulle connessioni tra il sistema limbico, il cervelletto e la produzione di lacrime. Ma del pianto si è occupata anche l’antropologa statunitense Margaret Mead, che esaminando le differenze culturali nelle manifestazioni delle emozioni, compreso il pianto ha evidenziato come le aspettative culturali influenzino le modalità di espressione emotiva nelle società umane.
E ancora Max Scheler, filosofo tedesco, ha analizzato il pianto e le emozioni come fenomeni intrinsecamente legati all’esperienza umana e alla percezione della realtà, mentre Roland Barthes, uno dei più influenti pensatori del XX secolo, ha scritto sull’esperienza del pianto nell’ambito della letteratura e delle arti, analizzando il pianto come segno di autenticità emotiva e come mezzo di comunicazione simbolica. In questa prospettiva, gli studi antropologici sono stati molto importanti per comprendere le dinamiche di espressione delle emozioni in contesti sociali differenti.
Sempre Margaret Mead, assieme a Gregory Bateson, ha messo in luce, per esempio, comportamenti difformi nella gestione delle emozioni in due contesti: tra i Kaluli della Papua Nuova Guinea drammatizzare le emozioni era attitudine incoraggiata, mentre a Bali, gli antropologi individuano uno stile emozionale in stato di quiete: gli atteggiamenti aggressivi erano fortemente disincentivati, se non addirittura stigmatizzati.
Un altro contributo rilevante arriva da Marcel Mauss, ai primi del Novecento, che trattando una sorta espressione obbligatoria dei sentimenti, tra cui quello del pianto, ne riferiva come “fenomeni sociali, contraddistinti soprattutto dal segno della non spontaneità e del più perfetto obbligo”.
Sul tema, importanti i contributi di Ernesto De Martino, che nel solco proprio dell’approccio scientifico di Mauss, approfondisce il ruolo sociale del pianto distinguendo, nel contesto specificatamente luttuoso, il planctus irrelato, spontaneo e decontestualizzato, dal pianto culturale, essenzialmente rituale, che riconsegna invece la persona che piange al mondo e alla sfera della cultura: la ripetitività del fenomeno è di fatto scelta e decisa dentro un dispositivo rituale.
De Martino ha studiato approfonditamente, fra gli altri, il pianto rituale lucano, caratterizzato da quella sorta di eccentricità organizzata che, alle lacrime, univa il gridato, a volte persino una sorta di ululato, accompagnando la caratteristica reiterazione monotona dei versi del lamento con l’oscillazione del busto, una sorta di ninna- nanna riscontrabile, peraltro, anche in altri pianti rituali del Sud Italia.
Il pianto rituale diventa così una sorta di carta d’identità dell’eccentricità intrinseca dell’umanità (rispetto, per esempio, ad altre specie animali), che lo rende capace di non essere totalmente assorbito dalle situazioni che attraversa. In questa prospettiva, il pianto aiuta a prendere le distanze dalla situazione (spiacevole) e, pian piano, a liberarsene.
Una sorta di camera di decompressione: in questo ci viene in aiuto la nostra corporeità umana – pianto, lamenti, grida, movimenti stessi del corpo – che forniscono gli elementi per mantenere questa distanza da qualcosa che, come nel caso della morte, è per noi incontrollabile, come ci ricorda anche un altro antropologo, Luigi Lombardi Satriani, sottolineando come sia proprio il nostro corpo a permettere la realizzazione della conoscenza. Il pianto, insomma, passa da modello espressivo di interazione primaria a istituto culturale compiuto, e se istituzionalizzato in forma rituale ha la precisa funzione sociale in qualche modo connessa con il recupero dell’energia formale del soggetto che piange.
È palese, in definitiva, la presenza di una forte essenza culturale del pianto, che da semplice reazione estemporanea e naturale, espressione universale di uno stato emotivo, si rivela invece un comportamento socialmente appreso, riflesso di rappresentazioni collettive situate. Le modalità e le aspettative relative al piangere vengono incorporate attraverso processi di inculturazione capaci di modellare le persone secondo un ideale socialmente definito e approvato.
Dei mille tipi di vita potenzialmente vivibili, la cultura ce ne offre solo una gamma particolare, intessendo una fitta rete di significati, quella sorta di ragnatela dentro la quale ci muoviamo e a cui tutti gli attori sociali forniscono poi contributi per intrecciarla e mantenerla in vita.
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