X
<
>

Share
10 minuti per la lettura

La retorica della paura è permeante. Tendiamo a vedere il rischio ovunque, e di conseguenza siamo inclini a informarci, qualunque sia il tema, guardando subito al peggiore scenario possibile. Da qui nasce “la fabbrica della paura”

C’è un sentimento a cui nessuno è stato mai del tutto estraneo, un sentimento che ci accomuna tutti, nessuno escluso, di qualsiasi età, genere o nazionalità: è quella che chiamiamo paura. Forse dipende dal fatto che la paura è anche una risposta emotiva condivisa da gran parte di tutte le specie animali viventi, un fondamentale meccanismo di sopravvivenza a livello individuale. Il premio Nobel Marie Curie, probabilmente consapevole di questa nostra tendenza innata a provare quel sentimento, diceva che “nulla nella vita va temuto, va solo compreso Ora è il momento di comprendere di più in modo da avere meno paura”.

Un invito alla conoscenza, certamente importante anche in considerazione del fatto che la paura è spesso stata utilizzata per governare e per controllare vaste fasce della popolazione. Uno degli studiosi contemporanei più importanti su questo tema, il professore emerito dell’Università del Kent Frank Furedi, di origine ungherese-canadese, è convinto del fatto che la paura è in grado di fornire soluzioni provvisorie a situazioni di incertezza morale  e  per questa ragione  venga utilizzata da un vasto insieme di sistemi di interessi, partiti e individui. La retorica della paura è permeante:  tendiamo a vedere il rischio ovunque, e di conseguenza siamo inclini a informarci, qualunque sia il tema, guardando subito al peggiore scenario possibile.

Questo non significa che necessariamente oggi abbiamo più paura di quanta ne avevamo in passato, ma semplicemente che siamo dipendenti da un linguaggio di paura e ansia; tendiamo a proiettare nel futuro ogni singolo problema come una bomba a orologeria. Furedi ritiene che finché la società non troverà il modo di diventare più incline a gestire l’incertezza, la politicizzazione della paura continuerà a crescere.

Vien da aggiungere che la gestione dell’incertezza dipende peraltro da un differente modello culturale che da un lato demolisca l’innaturale timore dell’Altro a priori, vissuto sempre come antagonista e non come elemento vitale importante nel sistema; e dall’altro affronti il tema dei rapporti fra persone appunto come un sistema, complesso e quindi naturalmente votato a una serie di evenienze anche diverse e non sempre di soluzione immediata. Conoscere per evitare di alimentare il senso di paura, proprio nel senso delle parole di Marie Curie. Ma evidentemente c’è chi lavora invece esattamente in un’altra direzione.

La fabbrica della paura, come giustamente la chiama il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, rientra tra le strategie di comunicazione di marketing politico maggiormente utilizzate, mentre per Carlo Ginzburg il mondo contemporaneo assomiglia per molti versi a quello descritto da Hobbes nel suo Leviatano: insicurezza e paura rischiano di produrre nuove teologie politiche.

Il sociologo Heinz Bude ci ricorda come la contemporaneità sia segnata profondamente dal principio della società della paura, e accanto al suo nome si potrebbero aggiungere quelli di altri storici, sociologi, filosofi e scienziati sociali in genere che negli ultimi anni si sono occupati del fenomeno della paura. Nella modernità la paura sembrerebbe configurarsi come un sentimento politicamente produttivo in grado di alimentare in relazione ad un immaginario della minaccia differenti configurazioni discorsive nello spazio simbolico della solidarietà sociale, appunto una questione di identità.

Ne era convinto già nel 1908 Georg Simmel, che nel suo “Der Streit” sottolineava come il conflitto rappresentasse una risorsa importante per la coesione sociale di gruppi, società, ma anche per le relazioni sociali tra individui. Per Simmel il conflitto è fondamentalmente unità, o meglio, la forma di una relazione nella quale le tensioni introdotte da possibili elementi dissociativi alla fine funzionano in modo associativo.

Nelle democrazie contemporanee il nesso tra consenso e la drammatizzazione dell’insicurezza è costitutivo, e d’altro canto il tema della paura come fattore storico e politico è stato un campo d’indagine particolarmente battuto dalla storiografia a partire dal ventesimo secolo. Molto è stato pubblicato da quando nel 1932 Georges Lefebvre, riflettendo sulla costruzione di uno spazio politico nel corso della Rivoluzione francese, aveva intravisto nella Grande Paura il primo stadio di una politicizzazione rivoluzionaria che poi si concretizzò attorno al tema del presunto complotto aristocratico.

Quasi cinquant’anni dopo, lo storico francese Jaen Delumeau, nel suo “La peur en Occident, XIVe-XVIIIe siècles. Une cité assiégée”, focalizzava l’analisi sulle dinamiche sociali all’interno delle quali aveva preso forma il “corteo di paure” (eretici, bestemmiatori, satana, ebrei, sovversivi etc.,) senza rinunciare a dare un’interpretazione attorno ai motivi del radicamento della paura nelle coscienze collettive delle classi popolari e delle élites di potere, prime fra tutte il clero.

Di recente l’accademica britannica Joanna Bourke ha proposto un inventario di casi di studio su percezioni e rappresentazioni della paura negli Stati Uniti e in Inghilterra tra ottocento e novecento, arrivando a parlare della paura come una potente forza motrice nella storia dell’umanità. Un tema così centrale nella storia dell’umanità e delle relazioni personali ha ovviamente visto molti sociologi e antropologi al lavoro: in particolare, quello della sociologia della paura è un terreno molto fertile, che si occupa di analizzare il ruolo e l’impatto della paura nella società.

La sociologia della paura si basa sull’idea che anche la paura, al pari di molte altre emozioni, sia socialmente e culturalmente costruita, e che la stessa possa influenzare i comportamenti individuali e collettivi, nonché le dinamiche sociali. La sociologia della paura aiuta insomma a comprendere come la paura può essere utilizzata per controllare e manipolare la società, nonché per indagare sui modi in cui le persone cercano di gestirla o superarla, interrogandosi inoltre sulle implicazioni etiche e politiche delle dinamiche della paura nella società.

È importante notare che non si limita a considerare solo gli aspetti negativi della paura, ma cerca anche di comprendere come la paura stessa possa essere funzionale e svolgere un ruolo nella protezione individuale e sociale. Gli approcci teorici utilizzati sono molteplici, a seconda della prospettiva e dei contesti analizzati. L’approccio culturale si concentra per esempio sulle rappresentazioni simboliche della paura all’interno di una società, esplorando come viene costruita e condivisa attraverso narrazioni culturali, simboli, miti e rappresentazioni mediatiche. Analizza anche come queste rappresentazioni influenzano le percezioni individuali e collettive della paura stessa.

L’ approccio politico esplora invece come le élite politiche o i governi possono utilizzare la paura per influenzare l’opinione pubblica, giustificare politiche di sicurezza o ottenere consenso, occupandosi anche sulle dinamiche di potere e controllo sociale correlate alla gestione della paura. Un approccio teorico molto utilizzato è invece quello di genere: questo approccio esamina come la paura può essere vissuta e manifestata in modo differenziato in base al genere, e come le norme sociali e culturali influenzano la percezione e l’esperienza della paura da parte di uomini e donne.

L’approccio psicologico e individuale si concentra infine sulle reazioni individuali alla paura e sulle strategie di fronteggiamento, mentre quello sociale e collettivo si concentra sulle dinamiche sociali e collettive legate alla paura, esplorando come la paura si diffonde all’interno di gruppi o comunità, come influisce sulle relazioni sociali, sulla coesione sociale e sulle dinamiche di esclusione o discriminazione. Questi sono solo alcuni dei principali approcci teorici presenti nella sociologia della paura: peraltro i sociologi spesso integrano più prospettive teoriche per ottenere una comprensione più approfondita della complessità del fenomeno della paura nella società.

Ci sono ovviamente moltissimi lavori interessanti che potrebbero essere ricordati. Una breve rassegna non può non citare, oltre a Frank Furedi, Ulrich Beck, sociologo tedesco, noto per la sua teoria della società del rischio, che ha analizzato come la paura e l’insicurezza siano diventate caratteristiche centrali delle società moderne a causa dei rischi globali come il cambiamento climatico, le minacce nucleari e le crisi finanziarie.

E ancora Barry Glassner, sociologo americano, che nel suo “La cultura della paura” esamina come i media e le istituzioni sociali abbiano amplificato la paura nella società contemporanea e come ciò influenzi le percezioni e i comportamenti individuali, oppure Deborah Lupton, sociologa australiana, che ha esplorato come le tecnologie, i dispositivi di monitoraggio e le app di sicurezza, influenzino la nostra stessa percezione e gestione della paura.

Un filone a sé quello della paura legata alle guerre, molto florido. Randall Collins ha scritto sulla violenza e sulla guerra, inclusa l’esperienza della paura in situazioni di conflitto, evidenziando come la paura e l’ansia siano coinvolte nei processi di violenza interpersonale e nelle dinamiche di combattimento, mentre il sociologo storico Charles Tilly ha analizzato la relazione tra guerra, stato e società, mettendo in luce come la paura sia utilizzata come strumento di controllo e mobilitazione nella guerra e come le istituzioni centrali sfruttino la paura per giustificare azioni militari.

Un terreno altrettanto fertile quello che indaga invece sulla paura da un punto di vista biologico, a partire dalle neuroscienze, per le quali ci sono evidenze che suggeriscono che alcune reazioni di paura nei confronti dell’altro possano avere una base biologica. Ad esempio, gli esseri umani tendono ad avere una predisposizione verso la familiarità e la simpatia nei confronti di coloro che sono considerati in gruppo o familiari, mentre possono mostrare una maggiore cautela e paura nei confronti di persone o gruppi considerati estranei o altro.

Alcune ricerche hanno suggerito che ci potrebbero essere basi neurobiologiche per queste reazioni. Studi sul cervello hanno mostrato che la paura e la reattività nei confronti di persone estranee possono essere influenzate da regioni cerebrali coinvolte nel riconoscimento delle minacce e nell’elaborazione emotiva. Queste risposte potrebbero essere legate all’attivazione dell’amigdala, una regione coinvolta nel processare le emozioni, compresa la paura. Difficilissimo, comunque, stabilire confini certi, considerato che l’esperienza e l’espressione della paura dell’altro sono profondamente influenzate da fattori sociali e culturali.

La paura dell’altro può essere appresa attraverso processi di socializzazione e può essere alimentata da stereotipi, pregiudizi e conflitti sociali. Le dinamiche di potere, l’educazione e l’esposizione a diverse culture possono di conseguenza modulare la manifestazione e l’intensità della paura dell’altro. Un approccio sistemico, che integra i due differenti modelli, appare decisamente più congruo. Per esempio, una visione molto ricca e suggestiva quella di Bauman, che in molti scritti fa una sorta di inventario delle paure liquido-moderne, analizzate sia singolarmente che nel loro insieme, al fine di rintracciarne elementi e radici comuni.

Bauman distingue tra paure di primo grado, quali sensazioni generate da una minaccia immediata per la propria vita, e paure di secondo grado o socialmente e culturalmente derivate, ovvero riconducibili all’interiorizzazione di uno stato emotivo di accresciuta insicurezza e vulnerabilità e tali da orientare il comportamento umano dopo aver modificato la sua percezione del mondo e le aspettative che ne guidano le scelte. “Una volta abbattuta sul mondo degli uomini – afferma Bauman – la paura si alimenta e si intensifica da sola”, diversificando le paure in ragione della relazione con l’oggetto posto a repentaglio dal pericolo minacciato.

E così, oltre alle paure per l’incolumità personale e a quelle riconducibili ai rischi sociali, Bauman aggiunge infatti un terzo ordine di paure, derivanti da pericoli che insidiano la propria collocazione nel mondo ed espongono gli individui alla possibilità di essere umiliati o esclusi a livello sociale. Ad essere minacciata, insomma, sarebbe pertanto proprio l’identità, costruita a partire dalla specifica collocazione all’interno di una gerarchia sociale mobile e sganciata da qualsiasi forma di condizionamento rigidamente deterministico, derivante in modo diretto dall’appartenenza a un determinato gruppo, classe di genere oppure di religione.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA RUBRICA MIMI’


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE