Illustrazione di Roberto Melis
2 minuti per la letturaÈ DIFFICILE, dopo un anno di emergenza pandemica, parlare con lucidità del tempo presente. Troppi gli stravolgimenti quotidiani, le paure, le novità. Soprattutto è difficile elevarsi al di sopra dell’emergenza per scorgere quel che resta del paese dopo questi difficili decenni di crisi.
L’Italia odierna la definirei il frutto dell’epoca della frammentazione. Intendo dire che se c’è un dato sconcertante nella cultura italiana degli ultimi ’30 anni, è la scomparsa di un discorso realmente nazionale-popolare, dunque fondato su una visione chiara e complessiva, seppur profondamente articolata, del paese.
Intendiamoci, dietro le spinte disgregatrici della politica, dopo un mutamento significativo del panorama internazionale, nel frattempo a scomparire non è stata solo la cultura nazionale, ma anche il popolo stesso, e questo non so se sia del tutto un male. Al netto della nostalgia per le comunità perdute, il popolo ha lasciato il posto a una variegata classe media inurbata, ma la frammentazione è stata anche il frutto di una nuova disgregazione creatrice, ovvero una condizione dovuta alla maggiore libertà odierna. Una libertà di certo basata su un esasperato individualismo, su mobilità, precarietà, solitudine, ma anche su occasioni enormi fornite da un accesso al sapere mai così aperto e diffuso.
Da questa prospettiva generale mi pare sia più facile comprendere l’emergere, nella rappresentazione del paese, di motivi quali lo spaesamento, la finitudine, caratterizzati come sono da una continua ricerca di identità e origini, e purtroppo a volte tentati dal retro-pensiero reazionario che non si rivolge all’attuale condizione giovanile, bensì a un passato edulcorato, ripulito dalle ingiustizie e dallo sfruttamento di classe. L’altra faccia della medaglia è la ricerca e l’adesione a un modello di sviluppo incivile, di una modernità a tutti i costi, seppure barbara e acritica, tuttavia efficiente.
Insomma, tra le contraddizioni italiane, nel confuso egoismo regionale, oggi siamo orfani della realtà complessiva e delle vere questioni nazionali. Non vedo epigoni di Lampedusa, che col suo Gattopardo rappresentava il nodo della Questione italiana, o di Visconti, il cui cinema, dalla Terra trema a Rocco e i suoi fratelli, ha fornito una visione accurata e profonda del paese. Non vedo epigoni di Scola, Ottieri, Morante, ma magari anche questo è soltanto un mio limite personale, e una diversa, non meno dannosa, forma di retro-pensiero. Beninteso, per chi, come me, si occupa di scrittura e di rappresentazione, l’impressione è che si racconti per frammenti, per generi, dunque in preda alle richieste dell’industria culturale, spesso con visioni estremamente parziali, se non irreali, frutto di una prospettiva urbanocentrica o al limite da periferia urbana. Sono dietro l’angolo le Suburre, le Gomorra, le tante storie di città, che non lasciano spazio ad altre realtà.
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