Il murale di Ozmo a Milano dedicato alla “sposa bambina”
5 minuti per la lettura“Chi è senza peccato, eriga la prima statua”: sembra il leitmotiv degli ultimi giorni nella gara a chi ha fatto peggio nella propria vita e a chi meno merita che gli venga intitolato un monumento. Un polverone spesso latente ma di fatto mai sopito, quello che ruota attorno ad alcune vicende personali di Indro Montanelli, Magister del giornalismo italiano, fondatore de “Il Giornale” e indimenticato narratore dell’Italia del Novecento: nello specifico parliamo della sua più che nota visita in Abissinia nel 1936 come sottotenente dell’esercito fascista dove, per 500 lire, comprò un cavallo, un fucile e una sposa-bambina eritrea di dodici anni, che egli stesso definì “un animalino docile” che lo seguiva ovunque andasse.
Nel 1969 abbiamo assistito al confronto tra Montanelli e la giornalista Elvira Banotti davanti alla quale ammise che il suo “matrimonio” con la bambina eritrea sarebbe stato considerato uno stupro in Europa, ma che non aveva la medesima valenza in Africa. Il fermo immagine si blocca qui per tutta Italia, tenendo aperto il dibattito nonostante gli anni e i colori della tv, che non trasmette più in bianco e nero; una discussione così fortuitamente attuale da tornare indietro come un boomerang nei giorni delle rivolte negli Stati Uniti successive all’assassinio di George Floyd. Proprio in nome di quella lotta, altre nazioni hanno reagito ad effetto domino, come dimostra l’abbattimento a Bristol, in Inghilterra, della statua eretta in ricordo di Edward Colston, mercante e commerciante di schiavi africani. Una protesta di questa portata e forza motrice di una tale ondata reazionaria non poteva non investire anche l’Italia: da qui la richiesta di rimuovere la statua di bronzo che ritrae Indro Montanelli, collocata negli stessi giardini di Milano a lui intitolati in cui venne gambizzato dalle Brigate Rosse, il 2 giugno del 1977.
In questi stessi giorni, a Milano, è stato eretto un “contro-monumento” alla sposa-bambina con la dicitura “in Montanelli”, un omaggio dello street artist Ozmo che la raffigura col pugno alzato e un sorriso che s’intravede da sotto il velo che le copre la bocca; un modo per dare voce a una bambina venduta che dice semplicemente: “c’ero anch’io”, con il loquace silenzio che solo le statue possono vantare. La parsimonia nell’erigere statue commemorative, però, è una dote che non ci appartiene. Pensiamo che intitolare una via, un parco o una statua sia il modo migliore per rendere giustizia all’operato di qualcuno, eppure la memoria non la fa il ferro e neppure il marmo, ma l’esempio perpetrato, le orme seguite, la strada tracciata. La formalità dei monumenti ha il grosso limite di dare adito alle più disparate forme di vilipendio e danneggiamenti, quasi che il gesto di buttar giù una statua possa cancellare i torti commessi, restituire giustizia e dignità o, nel più acerbo dei pensieri, fare un dispetto degno di nota.
Se dovessimo eliminare ogni monumento in onore di un personaggio storicamente significativo per un errore commesso nella vita privata, cadrebbero i memoriali di Caravaggio che era un assassino, di Neruda che disprezzava sua figlia disabile e di De André che è stato un alcolista. Quando personaggi di così ampio spessore storico, politico e professionale si macchiano di violenze come quella commessa da Montanelli, scindere l’uomo dal professionista diventa vischioso. Ci si deve aspettare la diatriba morale di sempre: essere delle eccellenze o dei punti di riferimento deve necessariamente comportare, escludere o integrare l’essere una persona umanamente ineccepibile?
Che a Montanelli potesse essere eretta o meno una statua, è ininfluente: neppure lui l’aveva mai amata particolarmente; chiedersi perché un uomo di profonda cultura come lui si fosse limitato a giustificare lo stupro perpetrato in Africa come un qualcosa di geograficamente delimitato, che rappresentava per lui un pericolo solo a livello legislativo e solo in Europa, senza mai appellarsi alla propria coscienza e realizzare d’aver avuto davanti una bambina, quale che fosse la sua nazionalità, è una riflessione legittima. Persino chi volesse far pendere l’ago della colpevolezza in favore delle vicende personali di Montanelli sfavorendo il suo indiscusso contributo giornalistico potrebbe avere le proprie ragioni e motivazioni.
Contestualizzare un atto deplorevole commesso in un dato tempo storico per giustificare l’atto stesso ha un po’ il retrogusto dell’arrampicata sugli specchi e della deresponsabilizzazione: siamo tutti mossi dal libero arbitrio e ciascuno è perfettamente in grado di rispondere delle proprie azioni, non di quelle del tempo che corre nel mentre le compie. Montanelli stesso lo era: quella di prendere in moglie una bambina eritrea non è stato un frutto del contesto da lui vissuto, ma di una sua libera scelta, checché se ne dica. Se vivessimo in un momento storico caratterizzato dagli omicidi a cielo aperto, nessuno di noi sarebbe comunque autorizzato a commetterne uno, in nome del sempreverde motto Cartesiano “cogito ergo sum”.
Quello che non pare per nulla legittimo è, invece, la decontestualizzazione dell’attacco a un monumento, l’oggettiva inutilità di accanirsi contro una statua che non chiuderà il dibattito Montanelli sulle spose bambine, né lo risolverà condannando definitivamente quest’ultimo. Se è vero che gli italiani fanno poca economia sulla costruzione di monumenti in memoriam, è anche vero però che ciascuno di loro ha un proprio valore intrinseco e qualunque atto di rimozione o danneggiamento degli stessi costituisce un vandalismo che prontamente rifuggiamo, soprattutto quando a danneggiare la Barcaccia del Bernini sono i tifosi olandesi di turno.
“Chi è senza peccato, eriga la prima statua”, dunque, anche se sarebbe bello poter dire di vivere in un mondo fatto di meno corpi immobili e più teste elastiche.
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