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La rivoluzione delle forchette a tavola si fa servendo un cibo “gentile” e “intelligente”, con il corpo e con il pianeta. La sfida è al centro del saggio “Il cibo che ci salverà” scritto da Eliana Liotta, edito da La nave di Teseo. Nel suo nuovo libro la giornalista e scrittrice dimostra quanto sia ormai necessaria una svolta ecologica a tavola per aiutare la terra e la salute – come recita il sottotitolo – e assicurare così un futuro con meno “scorie” agli abitanti del pianeta e a sua maestà, Madre Terra. La parola all’autrice del saggio, Eliana Liotta.

Se “siamo quello che mangiamo e quello che mangiamo può cambiare il mondo” a suo giudizio quanto è indispensabile e urgente una svolta ecologica anche tavola per aiutare la terra, arginare l’inquinamento e contribuire a salvaguardare il clima considerato, ad esempio, che secondo  un’analisi pubblicata su  Nature Food un terzo delle emissioni di gas serra dipende proprio dal sistema alimentare?

«La svolta ecologica a tavola è indispensabile. Non è più sufficiente, anche se aiuta, andare in giro a piedi e ricordarsi di spegnere le luci. Non basta pensare semplicemente a petrolio e carbone per limitare le emissioni di gas serra, responsabili del riscaldamento globale e dei fenomeni estremi che ne conseguono, dalla siccità alle bombe d’acqua. Lo studio di Nature Food, di marzo scorso, accompagna quanto avevano dichiarato nel 2019 le Nazioni Unite: le temperature non potranno arrestarsi se non modificheremo il sistema alimentare: quel che mangiamo e il modo in cui lo produciamo. Intervenire sul cibo è cruciale e urgente».

Protagonista di questa auspicata “rivoluzione delle forchette” è quello che lei definisce un cibo che sia al contempo “gentile con il corpo e con il pianeta” adatto all’Antropocene, l’epoca geologica in cui sono gli esseri umani a influenzare gli eventi della terra. In questo percorso, cosa è più importante: Mangiare meglio? Mangiare meno? Mangiare rispettando i cicli della Natura?

«Direi mangiare con consapevolezza, sapendo che il cibo gentile con il pianeta è allo stesso tempo gentile con il corpo. Il cibo buono è universale: concilia l’ego e l’òikos, come gli antichi greci chiamavano la casa, da cui il termine ecologia. L’Antropocene, l’epoca in cui viviamo, non è di per sé una condanna se portiamo in primo piano il rispetto, anche per gli animali, per le piante e per la Terra, prenderemo decisioni più intelligenti e progetteremo un futuro intelligente. Chi mangia troppo dovrebbe mangiare meno, chi eccede con la carne rossa dovrebbe ridurla, chi non sa quando maturano le fragole farebbe bene a farsi un giro in campagna e forse indugiare meno al banco dei cibi pronti».

Ecologia e cibo, dunque: come conciliarli anche nel nostro quotidiano?

«In estrema sintesi, sono cinque i pilastri alimentari di una tavola dell’Antropocene intelligente: verdura, almeno due porzioni e mezzo al giorno; frutta fresca, due-tre porzioni al giorno; cereali integrali e semi-integrali; legumi, almeno tre volte alla settimana; proteine animali sostenibili (che sono escluse solo nel regime vegano), limitando formaggi stagionati e carne rossa e intendendo con sostenibilità la quantità e la qualità di carni, pesce, uova, latte e latticini che, all’interno dell’alimentazione individuale, abbiano nell’insieme un impatto ambientale il più basso possibile».

Cibo intelligente e gentile ma anche cibo culturale, cibo sostenibile, cibo per dimagrire e cibo etico. Come dire cibo: uno, nessuno e centomila?

«La mia bisnonna era cugina prima di Luigi Pirandello e quindi non posso che rispondere di sì. Ho intitolato i vari capitoli di volta in volta con aggettivi che servissero a definire il cibo che ci salverà: intelligente, più naturale o innovativo».

“Il cibo non è una merce”, partendo da questo assunto accende i riflettori anche su un paradosso non da poco: la crescita della fame nel mondo da un lato e lo spreco alimentare dall’altro…

«La Fao avverte che la malnutrizione cronica ha ripreso ad aumentare e questa è un’informazione che si conosce poco, perché sembra sempre che il progresso sia tale da trascinare verso l’alto gli indicatori del benessere, ovunque. Invece no. Nel mondo, una persona su nove è denutrita. Ma per ogni individuo che soffre la fame, ce ne sono quasi tre obesi o in sovrappeso, due miliardi circa. In tutti e due i casi il cibo è una minaccia. Tutto questo è ancora più inaccettabile se si pensa allo spreco indegno e immenso. In Italia si getta nella spazzatura o si perde lungo la filiera produttiva cibo per un valore di circa 10 miliardi di euro all’anno».

Secondo le valutazioni dell’Onu, sono cinque le diete più note con un potenziale di mitigazione delle emissioni di gas serra e vantaggiose per la salute. Come si fa a districarsi nella selva dei consigli alimentari e delle diete che vengono suggerite anche sui social? A cosa bisogna prestare maggiore attenzione?

Eliana Liotta

«Esiste una formula intuitiva per organizzare pranzi e cene in modo da garantirsi un apporto completo di nutrienti e di mitigare allo stesso tempo le emissioni di anidride carbonica equivalente. È il cosiddetto healthy eating plate, il piatto del mangiar sano che è stato adottato dalla commissione EAT-LANCET come riferimento per l’alimentazione che salva salute e pianeta: le proporzioni prevedono che almeno tre quarti dei pasti provengano dal mondo vegetale, qualsiasi fra le cinque diete si adotti, dalla mediterranea alla pescetariana. Il metodo per comporre a occhio il pasto consiste nell’immaginarlo simile a un grande piatto: la metà è formata da verdura e frutta, con più verdura che frutta; un quarto dai cereali e derivati (meglio se integrali o semi-integrali, non farine 00); un quarto dalle proteine sostenibili, con una predilezione per i legumi, la frutta a guscio e per le proteine da fonti animali sostenibili, cioè prodotte e consumate il più possibile nel rispetto dell’ambiente. Cinque le diete più note con un potenziale di mitigazione di CO2 e che possono essere seguite adattando le proporzioni del piatto sano: dieta mediterranea, che non esclude alcuna categoria alimentare, prevede vegetali in abbondanza, carne rossa solo una volta alla settimana e un consumo moderato di latticini; dieta carnivora climatica, in cui all’interno di uno stile onnivoro almeno il 75% del consumo di carne di ruminanti (mucche, capre, pecore) e di prodotti lattiero-caseari viene sostituito da carne di maiale, coniglio, pollo e tacchino; dieta pescetariana, che prevede il consumo di pesce ma non di carne; dieta vegetariana, che esclude carne e pesce; dieta vegana, che ammette solo fonti vegetali».

Anche i colori e i profumi dei cibi oltre che le loro tipicità, sono importanti…

«Sì, i colori e i profumi degli alimenti sono carichi di un significato biologico profondo. Frutta e verdura dipingono un quadro di salute, anche grazie ai composti che le colorano e che poi salvaguardano gli esseri umani. Cercare l’arcobaleno a tavola è una strategia per assumere quanti più tipi di molecole benefiche».

Per tornare al nostro presente pandemico, nel saggio sostiene che “le epidemie emergenti hanno un nesso profondo con l’impatto delle attività umane sul pianeta. La deforestazione lascia senza casa i pipistrelli, che sono serbatoi di virus, il caldo fa proliferare zanzare temibili lì dove non c’erano, le polveri sottili danneggiano il nostro sistema respiratorio…”. Un quadro inquietante, qual è la strada da percorrere per invertire la rotta?

«È uscita sulla rivista Science un’analisi pubblicata da ricercatori statunitensi, secondo cui i costi per la prevenzione di nuove pandemie ammonterebbero appena al 2 per cento di quanto il mondo ha perso nel 2020 durante l’emergenza Covid: bisognerebbe interrompere il commercio di carni selvatiche e ridurre la deforestazione nelle regioni più critiche. Il motivo è identico: in entrambi i casi non manteniamo la giusta distanza dagli animali selvatici e ci esponiamo al rischio che i virus facciano lo spillover e il salto di specie, infettandoci. Ma perché si distrugge la natura? Spesso, purtroppo, per lasciare spazio agli allevamenti intensivi, alle coltivazioni di soia per ottenere mangime da dare agli animali e a quelle di alberi da cui si ricava il famigerato olio di palma».

Sulla via della rivoluzione ambientalista a tavola (e ai fornelli) un ruolo di tutto rispetto spetta all’Italia e alla dieta mediterranea. Del resto – come lei ricorda – anche il direttore di “The Lancet, Richard Horton, ha immaginato che possa essere l’Italia il laboratorio ideale per innescare la food revolution auspicata dagli scienziati…”. Come valorizzare al meglio questo patrimonio del Belpaese?

«Dobbiamo recuperare le ricette gustosissime della nostra tradizione, a base di legumi, di vegetali o di pesce azzurro. Siamo custodi di un patrimonio che può essere esportato, anche perché spesso i nostri piatti sono formati da pochi ingredienti da assemblare in modo veloce e sano».

L’arte di nutrirsi. “Mangiare è una necessità, mangiare intelligentemente è un’arte” – a dirla con la massima di François La Rochefoucauld da lei citata nel libro – ma è un’arte anche condividere il cibo come momento di socialità e di incontro, quanto è importante per il benessere psicofisico riprenderne le consuetudini del pre-pandemia?

«Chi ha potuto mangiare in compagnia, in famiglia, ha mantenuto uno dei piaceri del cibo, che è la convivialità, il motivo per cui la nostra dieta mediterranea è stata dichiarata patrimonio dell’umanità. Non appena questo coronavirus così insidioso ci darà tregua, torneremo a mangiare con gli amici e a goderci le belle serate nei ristoranti».


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