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Da tempo la nostra specie non è più quella dell’homo sapiens, lo dimostra come sta andando il mondo.
Mentre un’enorme parte della popolazione ha il problema di mangiare e l’altra parte dovrebbe porsi quello di far mangiare tutti, attorno all’industria del cibo è stato creato un impero.
Scegliere cosa mangiare è diventata una delle principali attività umane. In questo stordimento da varietà di offerta, l’homo sapiens sembra diventato l’homo saziens.
I bambini, cresciuti a surgelati, sono convinti che il merluzzo in natura abbia la forma di una mattonella. Il surimi, che chiamiamo comunemente “bastoncini di granchio”, contiene di tutto tranne il granchio. Le uova, un tempo chiamate “uova” e basta, oggi si distinguono tra uova prodotte in batteria o in libertà, da galline alimentate con OGM o farinaccio di grano duro o tenero, con mais o vitamine, con soia o con soia biologica… Le etichette sono diventate enciclopedie.
Alla televisione è un continuo avvicendarsi di competizioni tra chef, alla ricerca della ricetta più sfiziosa e dell’impiattamento più inutilmente riuscito. Con una smorfia di disgusto o di gradimento i giudici assaporano i piatti, mentre noi lì, a bocca asciutta, per qualche forma di recondito masochismo, guardiamo lo schermo facendo la delega dei nostri sensi a loro.
«In cinque minuti prepariamo la nostra ricetta» assicurano i cuochi in tivù e partono i cronometri. Allo scadere dei cinque minuti, «Anche oggi ce l’abbiamo fatta!», scrosciano gli applausi. E noi non facciamo caso al fatto che i cibi cucinati in trasmissione stanno già sul bancone, perfettamente dosati, capati, puliti, tagliati e allestiti, pronti per essere appena cotti. La stessa ricetta, se abbiamo la malaugurata idea di riprodurla a casa, ci accorgiamo che richiede due giornate intere di preparazione.
C’è un bombardamento di informazioni nutrizionali contrastanti. Uno specialista sostiene «I carboidrati vanno bene fino alle cinque del pomeriggio, altrimenti non si smaltiscono»; un altro gli ribatte «Meglio la pasta a cena perché favorisce la serotonina»; un altro specifica «Sì alla pasta, purché sia di Kamut»; un altro ancora, come svelando un complotto ordito dai potenti per sterminarci, addebita ai carboidrati l’origine di tutti i mali.
Dopo il sale marino, il sale integrale e quello iodato, direttamente dall’Himalaya è apparso sulle nostre tavole il sale rosa. Vorrei sapere chi è quel poveraccio che va lassù a raccoglierlo.
Come non bastasse, abbiamo scoperto anche spezie nuove, come la curcuma. Il curry, che negli anni Ottanta ci sembrava un nome femminile americano, oggi lo maciniamo come non ci fosse un domani. Se l’homo sapiens, nel corso della sua evoluzione, aveva creato la filosofia Zen, l’homo saziens ha creato la filosofia Zen-zero e religiosamente ci battezza ogni piatto.
C’era un’epoca in cui i nostri genitori avevano più certezze di tanti nutrizionisti di oggi. Ripenso con tenerezza a quelle spremute d’arancia somministrate a forza di «Bevila, che ti fa bene!», a cui seguiva sempre un «Tutta!», perché il sedimento, con qualche semino, tendevamo a lasciarlo sempre sul fondo, ritraendo le labbra.
Di mangiare la verdura mi rifiutavo; «Mangia le carote!» mi intimava mia madre, a voce talmente alta che il signore del piano di sopra rispondeva “Non mi piacciono!”. Ripenso all’uovo crudo sbattuto con lo zucchero, che, se oggi me lo preparo da sola, pure se seguo un corso da Vissani, non riuscirò mai a farlo uguale.
C’era un’epoca in cui sapevamo cosa era sano, senza che esistesse la laurea in scienze dell’alimentazione; sapevamo ascoltare quello che ci richiedeva il nostro corpo e l’istinto di cura arrivava dove non arriva oggi la spettacolarizzazione della professione.
Più che mangiare, oggi, mi sembra che anche per noi, come per le galline, sia diventata tutta una questione di mangime.
Siamo esseri umani da allevamento a terra.
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