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Eugenio Montale

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Facciamo poesia perché perdiamo. Perdiamo gli oggetti, le case, le persone. Perdiamo noi stessi e quello che siamo stati per un momento, per giorni o anni, e poi mai più. Scriviamo poesia per contrapporre ai “mai più” i brevi finiti istanti morti, presenti e già passati.

Eugenio Montale è morto il 12 settembre di quarant’anni fa, un mese prima che compisse ottantacinque anni.

Il discorso che Montale scrisse nel 1975 in occasione del Nobel per la letteratura che gli venne conferito quell’anno, si intitolava “È ancora possibile la poesia?” Dalle parole pronunciate è chiaro che quell’interrogativo Montale l’aveva rivolto molte volte a se stesso e molto vi aveva ragionato sopra. Lungo tutto il testo e fino alla fine del discorso ci sono riflessioni bellissime e fondamentali ma non vi è mai una risposta certa alla tormentata domanda che ne è il titolo, e non potrebbe essere altrimenti: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato.”
Non tutti amano la poesia, ma tutti hanno almeno una poesia, ascoltata per forza o per caso, colta di sfuggita intera o anche in versi sparsi, che per un attimo li ha inchiodati alla propria esistenza e, soprattutto, alla propria essenza. Chiunque ha incontrato nella propria vita dei versi che, a sentirli o a leggerli, lo hanno come congelato nell’istante. Lo hanno scoperto, rivelato e ritrovato dopo lungo tempo. Lo hanno restituito a se stesso, senza che neanche sapesse di essersi perso, anzi a volte ancora prima che si perdesse. Da qualche decennio a questa parte viene detto periodicamente che non sia più così, che non ci sia più spazio per la poesia perché nessuno più riesce a perdersi o ad ammettere la perdita. Mentre la poesia, come dice Montale, è fatta di assenze e perdite, spazi bianchi, di “a capo” e di “riprese”, di certi “vuoti che hanno un valore”, frutto di tempo e riflessione, “solitudine e accumulazione”.

“Tutto fa pensare che l’uomo di oggi sia più che mai un estraneo vivente tra estranei, e che l’apparente comunicazione della vita odierna – una comunicazione che non ha precedenti – avvenga non tra uomini veri ma tra i loro duplicati.” La società oggi non è molto dissimile da quella che descriveva Montale nei suoi saggi, negli articoli, nelle riflessioni in versi o in prosa che ha lasciato. Anzi accade che appaia ancora di più deformata e ingigantita in certe sue rabbie, in certe mortifere paure, in certi spaventati difetti. Accade anche che, ancora di più, tutti gli spazi tendano a essere riempiti, si temono i vuoti, scarseggiano i silenzi. Poco tempo ormai è realmente perso, o almeno ci si illude che non lo sia. Le attese sono diventate scrollate di notizie, la solitudine si soffoca nello spiare tignoso altre solitudini. I dubbi e le incertezze non fanno in tempo a fiorire che sono calpestati dalle più forti certezze altrui, dall’imposizione, dall’obbligo, dall’ineludibile richiesta di esprimere un’opinione, di abbracciare un credo o una fazione (“Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri/ ed a se stesso amico,/ e l’ombra sua non cura che la canicola/ stampa sopra uno scalcinato muro!”).

Sul muro di un palazzo, vicino casa mia, c’è una scritta. Non so chi sia l’autore, non so se sia una citazione. È volutamente lasciata anonima e incompleta, slegata da qualsiasi contesto e qualsiasi finale. Quella scritta dice solo: “la fredda determinazione dell’uomo convinto.” E io mi fermo davanti a riflettere e mi piace, e mi fa pensare a Montale e alla sua poesia universale del rifiuto. La poesia che più di tutte sento dentro di me, e sento me stessa rintoccare nei suoi versi.

“Ciò che viene sottratto all’uomo di oggi – da ogni partito, da ogni tecnica, da ogni conservatorismo o riformismo o rivoluzionarismo – è né più né meno che l’amore”, scrive Montale in una delle sue ultime riflessioni.

“[…] fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano « datate » e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. – Dice Montale in quel suo discorso – […] In tale paesaggio di esibizionismo isterico – si chiede ancora – quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?” Montale apparentemente non ce lo dice: “Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. – scrive a conclusione del suo discorso – È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi).”

Celati nelle parole del suo discorso per il Nobel, l’ormai vecchio, noto e celebrato poeta non fa che ripeterci quei suoi versi scritti giovanissimo, a poco meno di trent’anni: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”

Montale ci ha lasciato il manifesto della poesia, di tutta l’arte, di ogni tempo, in ogni condizione. La poesia esisterà finché esisterà un prodotto artistico che rifugge spiegazioni e risposte, sicurezze e chiarimenti, rifugge anche lo stesso tempo presente, nel momento in cui ne rende universali, cristallizzati ed eterni i molteplici infiniti frammenti di vite e sensi e sentimenti e persone, memorie, istanti di cui esso si compone.

“Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. […] Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo” Stoccolma, 1975.


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