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Un brindisi

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Che ruolo occupano nell’attuale società i riti? E rispetto al passato, hanno aumentato la loro presenza nelle nostre azioni quotidiane collettive o piuttosto stanno scemando? Voglio partire da una considerazione molto vicina alla mia attività di professore universitario.

Da molti anni si sono moltiplicati e amplificati i festeggiamenti per le lauree; è totalmente diverso rispetto a quanto accadeva qualche decennio fa. Parlo sia dei festeggiamenti successivi alla proclamazione, con patetiche e farlocche corone d’alloro, spumante agitato e sparso nell’aria alla stregua dei piloti di automobilismo e dei ciclisti, foto a gruppetti, come ai matrimoni. Ma parlo anche di quelli organizzati con settimane d’anticipo, feste con invitati d’obbligo cibo e alcol in quantità impressionante. E parlo anche della discussione vera e propria, dove i maschi arrivano in abiti da cerimonia tirati a lucido e le femmine invece tutte con tacco 12 o giù di li.

E il tutto, discussione, strette di mano, abbracci e spumante che schizza via viene filmato dall’inizio alla fine da una schiera di persone, manco fosse un incontro del G8. Insomma, parliamo di una cerimonia a tutti gli effetti. 

Mi sono sempre chiesto il perché di tutta quella messa in scena, che una volta era assente. Forse dipende anche dal fatto che una volta la laurea era un mezzo per trovare lavoro.

Oggi, purtroppo, sempre più spesso è diventata un fine. Un pezzo di carta fine a sé stesso, e allora il rito del conseguimento del titolo serve alla fine a coprire la perdita di valore reale. Una mera sostituzione, insomma. Prima rappresentava la chiave d’accesso al mondo del lavoro, un rito di passaggio. Oggi viene invece celebrato come un approdo.
La verità è che a sempre i riti sono importanti nell’equilibrio delle società, e sono stati spesso oggetto di analisi da parte degli studiosi.

La funzione del rito secondo Durkheim, per esempio, è duplice: sociale, come regolatrice delle credenze (e in questo senso le azioni rituali sono rappresentazioni collettive) e individuale, per la sensazione di benessere che provano i partecipanti nella sensazione di costruzione di una morale.

Anche  Malinowski attribuisce al rito una funzione di carattere sociale; per lui ogni comportamento rituale, sia esso una cerimonia commemorativa, un sacrificio o anche una rappresentazione magica, è sociale.

E se Cazeneuve  parte dal presupposto dell’universalità del rito per definirlo come “un atto che si ripete e che possiede un’efficacia, almeno in parte, di ordine metaempirico”, nella concezione di De Martino invece l’essere dell’uomo non è assoluto, si tratta piuttosto di un ‘esserci’, di un essere come presenza nel mondo che si fa attraverso la costituzione di orizzonti storico – culturali determinati. Ovviamente, per mezzo dei riti.
Bastano questi esempi per comprendere che il sistema simbolico – rituale rappresenti in qualche modo la fonte da cui poter derivare e comprendere l’interazione sociale. E’ infatti il punto di transizione dalla dimensione individuale a quella sociale: il mito e il rito si sviluppano attraverso processi sociali che realizzano la costruzione e l’assimilazione di un sistema di significato quale oggettiva concezione del mondo e vengono integrati in una biografia coerente in cui la persona colloca sé stessa in relazione ai suoi simili, all’ordine sociale e all’universo.

I riti hanno insomma un  potere simbolico  forte, intenso e unificante; è nella loro ripetitiva celebrazione che le persone instaurano un legame, una relazione. Ed è l’insieme di queste relazioni collettive che costituiscono, come ci ricorda il filosofo Byung-Chul Han quella comunità della risonanza che viene a crearsi proprio attorno alle pratiche rituali. Che è capace di aprirsi all’ascolto dell’Altro e poi di individuare e assestarsi su un ritmo comune. 

Oggi, quegli assi di risonanza e la stessa comunità sono messi in crisi e disgregati da un individualismo (spesso anche narcisismo) crescente. Basta guardare alla comunicazione digitale, in cui l’eco di sé tende a prevalere sull’esperienza collettiva, che trova massima esaltazione nei social (che dovrebbero chiamarsi individual, per coerenza) dove sembrano esserci “camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla”.

L’assenza di rituali è stata soppiantata da una necessità di produzione costante e accelerata tipica del neoliberismo: a essere prodotta è la cultura (che ha i tratti di un’ipercultura) e sono lo spazio e il tempo, e così pure le informazioni. Prodotte, accumulate, sempre in circolo, proprio le informazioni sono il perfetto specchio della comunicazione senza comunità descritta da Han: caotica, autoriferita e impulsiva.
Un rito, per essere definito tale, ha bisogno di una comunità che impieghi il suo tempo senza uno scopo, che festeggi senza un motivo, che ripeta azioni collaudate dall’uso nel corso di anni. Oggi invece, questa forma di conoscenza pare essere completamente perduta proprio perché, in estrema sintesi, non vi è una comunità in grado di sostenerla.
Il neoliberismo ci induce insomma verso il consumo sfrenato non solo delle cose, delle merci sfavillanti e sempre uguali a sé stesse (con il solo gusto apparente della novità scelta per noi da un marketing asfissiante), ma anche delle nostre emozioni nei loro riguardi.

Ma per tornare alla domanda iniziale sui riti connessi alle lauree, come la mettiamo allora?
I riti sono scomparsi o no?

Forse ora adesso la risposta è più chiara: quel che è scomparso, non è tanto il rito nel suo complesso (che anzi, appunto, si moltiplica anche in occasione di situazione ritualizzate nuove) ma il suo valore sociale, la sua consistenza simbolica, la sua efficacia. Più si moltiplicano le espressioni del rito, più si perdono i suoi contenuti significativi. Insomma più le cose, le situazioni, le istituzioni, l’esperienza vissuta tendono a veder sbiadire la propria importanza, ad appiattirsi, facendosi prendere dalla frenesia della produzione e del consumo, meno i riti funzionano. Meno assolvono al loro compito di costruire comunità.

“Uno dei problemi più gravi dei nostri giorni – dice Mary Douglas – è la sfiducia nei simboli, l’ampio ed esplicito rifiuto dei rituali in quanto tali. ‘Rituale’ è diventato una brutta parola, equivalente a conformismo vuoto: assistiamo a una rivolta contro il formalismo, anzi contro la forma”. Il rito invece è una forma ripetitiva che ha un valore positivo, che fa comunità. 

La ripetizione, come ricorda Kierkergaard, “è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso”; la novità, l’originalità, la stranezza – veri miti d’oggi – costituiscono, alla fin fine, una “coercizione permanente”. E’ cosi che il fatto consolidato, ciò che è stato e che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione.

Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento. L’aveva ben chiaro anche Antoine de Saint-Exupéry, che ne La Cittadella scriveva: “E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione”.


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