Bernard Malamud
5 minuti per la letturaNel corso della sua esistenza, molto spesso è stato chiesto a Bernard Malamud, figlio di ebrei russi immigrati negli Stati Uniti, perché scrivesse sempre di personaggi ebrei. Malamud, di fronte a questa domanda, rimaneva sempre un po’ interdetto. Allo stesso modo non condivideva l’idea di essere definito, insieme a Philip Roth e Saul Bellow, il più grande rappresentante della “letteratura americana ebraica” del Novecento. Riteneva che non si potesse chiudere la letteratura in un recinto, come non si poteva imbrigliare la sua autenticità di scrittore nell’etichetta di “scrittore ebreo”. A quella domanda ricorrente, del perché i suoi personaggi fossero quasi sempre ebrei, dava ogni volta una risposta differente: perché “questo tema infiamma la mia immaginazione”; perché “li conosco bene”; perché sono “l’incarnazione perfetta del melodramma”. Ma a tutte queste risposte aggiungeva sempre: “perché sono sicuro di rappresentare l’ebreo come uomo universale”.
Ed è questo che, più di ogni altra cosa, a Malamud preme raccontare: l’umanità celata in ogni uomo. Che si tratti per lo più di poveri ebrei della periferia newyorkese, commercianti, sarti, bottegai, è una contingenza del caso, che siano tutti egualmente uomini è un ineludibile destino comune.
In uno dei suoi romanzi più lucidi e terribili, L’uomo di Kiev, da molti indicato come il suo capolavoro, lo sfortunato protagonista Yakov, che affronta ingiustamente e ciecamente sciagure, persecuzioni e torture, fa questa riflessione: “nascere ebreo significava essere vulnerabili alla storia e ai suoi errori più spaventosi”. Se si segue la chiave di lettura che è lo stesso Malamud a darci, ne trarremo il significato universale che: nascere uomo significa essere vulnerabili alla storia e al male operato dagli altri uomini. Perché per un ebreo fare i conti con le persecuzioni storiche e la Shoah, è lo stesso che, per ogni uomo, affrontare a un certo punto il concetto del Male, quello casuale, cieco, ingiustificabile, insensato. Così in Yakov, come in ogni uomo: “il coinvolgimento, in un certo senso, era impersonale, ma le conseguenze, il suo dolore e la sua sofferenza, non lo erano. La sofferenza era personale, acuta e, a quanto ne sapeva Yakov, senza fine”.
I personaggi di Malamud, nei racconti come nei suoi splendidi romanzi, subiscono sciagure, perdono fortune, vengono umiliati, sopportano lutti e tradimenti, sono vittime di ingiustizie e inganni. Sono, quindi, nient’altro che uomini in balia di questa troppo umana esistenza. Ma, nel momento in cui vengono raccontati da Malamud, dalla sua scrittura rigorosa e scarna, precisa, limpida, dimessa e discreta, improvvisamente ne sono illuminati e sono restituite loro umanità, dignità e grazia. È, il suo, uno sguardo d’amore, lo stesso che ne Il commesso, forse il più bello dei suoi romanzi, Helen Bober, nel momento in cui dall’indifferenza e il disprezzo, passa all’amore, riserva a Frank Alpine, il commesso del titolo, imbroglione e appassionato, debole e santo, cedevole al male e sempre pronto alla redenzione: “Frank era stato una certa cosa, sporca e meschina, ma c’era qualcosa in lui, qualcosa che Helen non riusciva a definire, forse un ricordo, un ideale che magari aveva dimenticato e di cui si era ricordato – e questo l’aveva trasformato, ne aveva fatto una persona diversa”. A questo modo Malamud guarda gli uomini, riuscendo a vedere qualcosa in loro che un tempo c’era stato e che perfino loro avevano dimenticato. “Non ci sono sempre finali tristi. – ha dichiarato in un’intervista – Nella mia narrativa c’è parecchio amore per la vita. Se non l’avete trovato, non mi avete letto per bene”.
Bernard Malamud perse la madre molto presto e, dopo alcuni anni, il padre, proprietario di un piccolo negozio di alimentari. Iniziò a scrivere fin da bambino ma dovette, per mantenersi, fare molti lavori da impiegato, commesso, insegnante nelle scuole serali. Già dall’età di venticinque anni, tuttavia, i suoi racconti vennero pubblicati su molte riviste letterarie. Quando vinse il National Book Award, con la sua prima raccolta di racconti, Il barile magico, cosa allora del tutto inaudita, venne consacrato come scrittore. Si trasferì nel Vermont dove insegnò scrittura creativa al Bennington College fino alla morte, che avvenne per infarto nel 1986. Fu equiparato a Kafka, Beckett, Cechov e Dostoevskij. Ma anche, per il suo sottile umorismo e l’incantamento amaro, al suo amato Charlie Chaplin, di cui da ragazzo non perdeva un film.
Di natura schivo e riservato, l’aspetto dimesso da bibliotecario o impiegato di banca, Malamud fu a volte oggetto di critica, soprattutto da parte del suo amico-nemico Philip Roth, che, ad appena un mese dalla sua scomparsa, gli riservò un ritratto pieno di sarcasmo e livore, in cui lo definiva “una sorta di assicuratore… un fragile vecchietto molto malato”, tetro e deprimente, vissuto troppo stancamente e troppo a lungo.
Pare di vedere, postumo, uno dei suoi personaggi, miti, retti, modesti e dimessi, che ispirano rabbia cieca e incontrollata in chi non è come loro, e non li comprende.
Ben lontano dall’essere un assicuratore, Malamud è, fin da giovane, appassionato e tenace nel voler essere scrittore, nonostante le difficoltà materiali e le sofferenze d’animo: “Mi ricordavo dell’affermazione di Kafka, all’incirca alla stessa età: ‘Dio non vuole che io scriva, ma io devo scrivere’ ”. E per anni, come raccontò in seguito, per lui il dono della scrittura “fu una benedizione capace di sanguinare come una ferita”.
Bernard Malamud assomiglia, piuttosto, a quello che in yiddish viene definito un Mensch, che significa qualcosa di più che un uomo giusto e onesto: un uomo che ha conosciuto la sofferenza, quindi se stesso e, conoscendo se stesso, prova empatia per l’altro. Se avesse potuto leggere il necrologio scrittogli da Roth, avrebbe forse risposto come rispose, molti anni prima, al saggio Imagining jews in cui Roth criticava pesantemente alcuni brani dei suoi romanzi, e come istintivamente, sommessamente e nei fatti, i personaggi dei suoi scritti rispondono al male che viene loro inflitto: “è un problema tuo, non mio”.
Alla fine de Il commesso, Frank Alpine chiede a Morris Bober, lo sfortunato e onesto protagonista del libro, cosa significa per lui essere ebreo: “Significa comportarsi bene, essere onesti, essere buoni. Buoni con gli altri. La vita è già abbastanza difficile. Perché dovremmo fare del male a qualcuno? A tutti dovrebbe andare nel migliore dei modi, non solo a te o a me. Non siamo mica bestie”, risponde Morris.
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