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Banksy, “Il lanciatore di fiori”

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Scriveva Albert Camus nella raccolta di riflessioni e interventi politici “Mi rivolto, dunque siamo”: “all’interno delle singole nazioni, le rivoluzioni hanno ormai un costo molto elevato. Tuttavia, in considerazione dei progressi che si ritiene possano produrre, in genere quei danni sono accettati come necessari”.

Nella caleidoscopica visione che il Covid ci ha consentito di sviluppare in questi mesi, stravolgendo le dinamiche e gli umori della società e accavallando risentimenti e resistenze, c’è stato e c’è ancora chi paragona la reazione al virus a una guerra. L’assetto della guerra, per sua natura, presuppone due o più forze contrapposte tra loro. Presuppone un pretesto che fa scoppiare il conflitto, le imprevedibilità delle alleanze tra le forze in questione che conducono sui propri piedi l’avanzata della guerra.

Se volessimo metaforicamente dare una chance a questa interpretazione diremmo che, sì, probabilmente anche quella contro il Covid è da considerarsi una guerra. Le fazioni contrapposte si battono ad armi impari, dal momento che qualunque altra guerra è combattuta alla stregua della visibilità, della fisicità quanto mai ravvicinata sul campo di battaglia; nel 2020, però, dall’altra parte della trincea staziona un nemico che c’è e non c’è, che si vede e non si vede. Che s’insinua nelle fazioni che lo combattono senza far capire di averne invaso il territorio, al cui passaggio le bombe difensive scoppiano invano, senza mai colpirlo e rallentandone a stento la corsa. Come si combatte una guerra in cui è impossibile distinguere nitidamente i tratti del proprio nemico? Si tratta, allora, senz’altro di una guerra atipica, in cui le forze umane non si contrappongono, ma reagiscono all’unisono. Almeno fino al momento in cui la guerra non diventa civile e il contrasto non diventa interno, sfociando nella rivolta.

Tante quelle che stanno avvenendo in queste settimane, dall’ultimo Dpcm. che prevedeva l’Italia “colorata” a zone tra il giallo e il rosso per determinarne la gravità dello stato sul piano Covid. Tante perché gli abitanti di ciascuna zona hanno ritenuto spesso di non “meritare” un colore troppo severo che imponesse delle restrizioni, a loro dire, eccessive. In Campania le proteste erano cominciate già un mese addietro, quando il Presidente Vincenzo De Luca aveva minacciato di chiudere le attività nella regione prima ancora che questo fosse deciso dal Governo. A quel punto le rivolte, che per loro stessa definizione sottendono a una dimensione del tutto “fisica”, hanno preso il sopravvento in un momento storico in cui il contatto con altri corpi e con altre vite è quasi bandito, guardato con timore, affrontato con sospetto. Da che avevamo stabilito che la vita tra gli uomini e le donne si sarebbe svolta a partire dal metro e mezzo di distanza gli uni dagli altri, il malcontento ha ri-azzerato tutto livellando ogni più piccolo progresso, sanitario e sociale, portato a casa negli ultimi faticosi mesi.

Nella Calabria infuocata degli ultimi giorni – e non solo dal rosso fiamma che decreta il livello di rischio più alto –, le recenti notizie in merito alle dimissioni dell’ex commissario alla Sanità Saverio Cottarelli e la nomina del suo successore Giuseppe Zuccatelli, hanno acceso una miccia già da troppi giorni pericolosamente vicina alle fiamme del malcontento generale: una imponente protesta per le strade di Catanzaro ha manifestato il malessere e il rifiuto dei calabresi per la drastica condizione degli ospedali e l’effettiva mancanza di una sanità solida, in grado di far fronte alla pandemia. A Vibo Valentia una commerciante, sostenuta con applausi scroscianti, ha iniziato uno sciopero della fame per protesta contro la “zona rossa”.

Sulla legittimità di combattere per i propri diritti, nulla quaestio: è il princìpio che da secoli sancisce il passaggio da una condizione sociale peggiore ad una migliore. In qualche misura, la protesta è il termometro del progresso. Ma in un momento così critico in cui, convenendo con Camus, una rivoluzione potrebbe avere costi (in questo caso umani) altissimi, quale dei due diritti sulla bilancia dovrebbe avere più peso? Quello a una sanità funzionante o quello a protestare per ottenerla? Nella sempiterna immagine del cane che si morde la coda si incardina, inevitabilmente, anche questa immagine: folle di persone stremate, fisicamente ed economicamente dal corso del Covid che è ormai alle porte dell’anniversario, che si assembrano per chiedere un diritto che, forse, avrebbero tutelato maggiormente impedendo al virus di circolare in assembramenti così accentuati. Paradossale: una protesta immobile – ma non per questo necessariamente silenziosa – forse avrebbe protetto quel poco di sanità ancora funzionante che barcolla appesa al filo della malagestione. La rivoluzione non consiste nel contrastare un male ponendone in essere un altro. La rivoluzione è mobilitarsi affinché il male che si combatte non si ripresenti mai più. In questo frangente più che mai non possiamo pretendere di vincere il braccio di ferro contro il Covid ammassando le mani sulla sua, tutte insieme: il troppo contatto fa male. Forse, nel frattempo che ci si reinventa in tutto, è venuto il tempo di reinventarsi anche le rivolte, di rivoluzionare la rivoluzione.


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