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Lo sceneggiatore e autore Andrea Paolo Massara

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Andrea Paolo Massara, figlio di emigranti calabresi, ha vissuto l’infanzia in Svizzera, l’adolescenza a Capo Vaticano in Calabria dove torna di frequente, si è diplomato in sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma dove vive, ed è autore di film di finzione e documentari. Tra questi il film documentario “The Rossellinis” di Alessandro Rossellini , presentato come evento di chiusura alla Settimana della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia e in uscita al cinema in tutta Italia dal 26 al 28 ottobre. Una scommessa non da poco confrontarsi con la storia del regista di “Roma città aperta” e con la sua numerosa famiglia.

Massara, Lei è coautore di questo lavoro. Com’è nato l’incontro col regista Alessandro Rossellini, nipote del leggendario Roberto?

«A propormi di lavorare con Alessandro è stata la casa di produzione B&B Film. “The Rossellinis” era un progetto ambizioso, che metteva insieme la storia del cinema, il racconto di una famiglia e la vita privata di Alessandro. I produttori hanno forse pensato che la mia professionalità di scrittore di film drammatici e commedie potesse essere adatta. Più che un documentario storico sulla figura di Roberto Rossellini, la direzione che abbiamo intrapreso insieme è quella di puntare a una sorta di commedia familiare. Alessandro è il regista e la persona che conduce per mano lo spettatore, permettendogli di entrare nell’atmosfera intima di una famiglia speciale».

Cosa vuol dire per uno sceneggiatore della Sua generazione – Lei è nato nel 1985 – accostarsi a un mito come Roberto Rossellini?

«Attorno alla sua figura c’è ancora un’ammirazione incredibile. Il mondo del cinema lo venera come un genio inarrivabile. Roberto ha cambiato la storia del cinema, è un mostro sacro e intoccabile, una sorta di santino che i critici portano con sé nei loro portafogli. Questo documentario non è l’ennesimo elogio del suo genio, ma un viaggio nella sua famiglia e quindi un’analisi della sua figura di uomo e di padre. Cosa vuol dire essere figli e nipoti di un genio? Scavando a fondo, sono venute fuori tutte le contraddizioni. Roberto in qualche modo usava tutta la sua famiglia per nutrire e sostenere il proprio talento. In molti ci hanno messo in guardia: Roberto Rossellini non si tocca! La produzione, il regista e io abbiamo sentito il peso di quello che stavamo facendo. In fondo è stato bello vedere come una persona che ha dato tanto possa essere ancora così amata dopo la sua morte. Credo che il film gli renda onore, attraverso un ritratto ironico, contraddittorio, ma anche affettuoso».

Nel cast Isabella Rossellini, Renzo Rossellini, Robin Rossellini, Ingrid Rossellini, Gil Rossellini, Nur Rossellini, Katherine Cohen… che rapporto si è instaurato con loro?

«I figli di Roberto sono sparsi su vari continenti. Ho incontrato di persona soltanto Ingrid e Isabella, figlie della star di Hollywood Ingrid Bergman, due sorelle gemelle eppure molto diverse. La prima è una professoressa universitaria introversa, l’altra è l’attrice e modella che tutti conoscono. Ci sono tanti modi di crescere in famiglia. Il confronto col genio può far diventare timidissimi oppure spingere a fare una carriera simile ai genitori. In ogni caso, con mamma e papà bisogna farci sempre i conti, come capita anche a tutti noi. Se papà è famoso e intelligentissimo, diventa più difficile. Gli altri personaggi li ho studiati a distanza, attraverso i filmati e il confronto con il regista. È stata anche una scelta: stare alla larga per non spezzare quell’intimità familiare che cercavamo. In compenso però sono diventato il più grande confidente di Alessandro: le nostre sedute di scrittura sono diventate a poco a poco sedute di psicanalisi. Abbiamo condiviso tanto e spesso anche io ho dovuto mettermi in gioco».

Di questa edizione così particolare del Festival di Venezia c’è un’immagine che Le è rimasta nel cuore?

«Arrivato al Lido, il primo impatto è stato difficile. Erano obbligatorie le mascherine persino all’aperto e il tappeto rosso era chiuso da un alto muro per evitare gli assembramenti dei fan. L’atmosfera non sembrava delle migliori. Poi ho cercato di guardare con altri occhi: è il primo festival di cinema che si tiene regolarmente, mentre Cannes e altri sono stati annullati. È una grande conquista, contro questa brutta bestia che è il virus. Nonostante le mascherine nascondessero i visi, ho visto gli occhi commossi di tanti spettatori che guardavano i film. Un segno positivo».

Tra i Suoi lavori di maggior successo troviamo anche “Non è un Paese per giovani” con la regia di Giovanni Veronesi…Come se lo immagina Lei oggi un Paese per giovani?

«Forse è proprio la parola “giovani” a essere sbagliata. Oggi si definiscono “giovani” le persone fino a 35 anni. Io non mi vedo tale. Lo sapete che a questa età sono già spuntati i primi capelli bianchi?. Mi posso definire “giovane” solo se sono seduto a una tavolata di anziani. Questa è la fotografia del nostro Paese: l’età media è fra le più alte del mondo. È il racconto che dovrebbe cambiare. Se la nostra generazione iniziasse a considerarsi come un gruppo di donne e uomini adulti, alzerebbe la voce. I giovani in Italia sono una minoranza, tenuta in un angolo o, come si dice nel calcio, “in panchina”».

Che rapporto ha, invece, con gli anziani?

«Con la maggioranza del Paese? Scherzo. Mi divertono. Li trovo buffi. Si lamentano magari di aver avuto una riduzione della pensione di venti euro, senza rendersi conto che i loro figli e nipoti lottano per arrivare a fine mese. Mi piacerebbe vederli di più sul grande schermo. Oggi ci sono amori che nascono a ottant’anni. Ci vorrebbero film e serie che raccontino con sincerità la terza età. È un mondo ancora da esplorare».

Ha firmato anche la sceneggiatura de L’Attesa di Piero Messina, con protagonista il premio Oscar, Juliette Binoche… Come ricorda quel set?

«È stata un’esperienza più grande di noi. Eravamo tre sceneggiatori e un regista, appena usciti dalla scuola di cinema. Avevamo scritto per anni, come ossessionati dalla storia, senza pensare a quello che ne sarebbe stato. Anche quando abbiamo firmato il contratto con la produzione, non credo di aver capito cosa stavamo facendo. Poi una notte arrivo sul set in Sicilia, con la vecchia Fiat Seicento presa a mio padre, partendo dal mio paesino in Calabria. Il regista stava girando una scena che poi non è stata montata: Juliette Binoche, nell’interpretare il suo personaggio, faceva rifornimento in una stazione di benzina nell’entroterra, in un posto sperduto, nel buio. Lì mi sono chiesto: come è possibile che quattro ragazzini – solo con la forza della scrittura – hanno portato un premio Oscar quaggiù?».

E il Suo rapporto col regista Fabio Mollo, anche lui calabrese, con cui ha lavorato per “Il Sud è niente”?

«Io e Fabio ci siamo conosciuti tramite un mio racconto, che lui aveva letto. Avevo vent’anni e lui mi disse che voleva trarre un cortometraggio da quelle pagine. Sarebbe diventato il suo saggio per la scuola di cinema: “Giganti”. Mi hanno chiesto di collaborare alla sceneggiatura ed è stato per me dolorosissimo. All’epoca per me scrivere era come raccontare la parte più intima di me. Non accettavo il fatto che quelle pagine potessero essere modificate per diventare un corto. Da lì ho iniziato ad approcciarmi alla scrittura come a un mestiere, anche se vivo tutto sempre in modo emotivo. La parola che ha unito me e Fabio è stata proprio un’emozione: la “raggia”. Venuti entrambi dalla Calabria, un territorio denso di conflitti, avevamo una rabbia dentro, che trovava espressione in ciò che facevamo, nei film. Altri magari diventano delinquenti. Noi ci sfogavamo così. In realtà sono due facce della stessa medaglia».

C’è una parola, un modo di dire, un soprannome della Sua infanzia che si porta dietro ancora oggi?

«Mia nonna paterna diceva a volte questa frase: “Tutto è bonu”. Tutto è buono, tutto fa bene. Lo diceva di fronte alle cose più disparate: un piatto di parmigiana, un lavoro semplice e dignitoso fino addirittura alle botte che ti può dare un amico durante una litigata feroce. Era un modo di intendere la vita, che non ha paura delle difficoltà, neanche dei disastri all’orizzonte, anzi accoglie tutto, come qualcosa di formativo, come qualcosa di buono, in fondo. Vita è tutto».

Massara, Lei è anche direttore artistico e cofondatore di “Avvistamenti Teatrali”, rassegna di nuova drammaturgia a Capo Vaticano. Cosa ha il teatro che il cinema non ha e viceversa?

«Il teatro ha la persona reale, in carne ed ossa, di fronte a te, spettatore. Quando uno spettacolo è davvero intenso, è forte come la vita. E quando gli attori smettono di farlo… non esiste più. Resta il testo, che potrà essere interpretato da altre persone. Anche questo ricorda la vita. Un film si fa una volta e dura per sempre. Ci lavorano tantissime persone, a volte un centinaio di professionisti. Anche il cinema è un miracolo: come fanno un mucchio di persone a creare opere così intime?».

Se dovesse cominciare a scrivere la sceneggiatura della Sua vita da dove inizierebbe e perché?

«È una domanda difficile. Credo che la risposta dovrei cercarla in Svizzera. Sono nato lì, figlio di emigranti calabresi. La mia famiglia non parlava la lingua del posto, i miei genitori facevano i lavori che gli svizzeri non avevano più voglia di fare: i turni di notte in fabbrica, costruire dighe in alta quota col martello pneumatico quando la temperatura era sotto lo zero… Lì eravamo stranieri, come lo sono oggi in Italia i bengalesi, gli africani e tanti altri. In fondo, nessuno è così speciale. L’umanità si assomiglia tutta. Il mio lavoro è far entrare lo spettatore nella vita di un’altra persona, facendogli vivere quelle emozioni. Se siamo fortunati, se la magia del cinema accade, è qualcosa che può abbattere le barriere tra le persone».


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