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Se pensavamo che la praticità non avesse prezzo, dobbiamo ricrederci: l’altra faccia della medaglia della comodità è lo spreco.

Ne abbiamo avuto prova negli ultimi giorni, quando sui social ha cominciato a girare forsennatamente la foto di una confezione di banane già sbucciate, avvolte in contenitori di polistirolo e avviluppate in metri di pellicola di plastica. Il noto marchio di supermercati che ha prodotto quello che, probabilmente, è il più grosso ossimoro alimentare degli ultimi anni, è rimbalzato da Facebook a Twitter raccogliendo i commenti increduli di tutta quella “strana” gente che prima del “progresso” soleva mangiare le banane sbucciandole da sé.

Ad aggravare la scomoda posizione della catena di supermercati arrivano alcune supposizioni secondo cui i dipendenti avrebbero confezionato le banane perché le bucce presentavano delle “macchioline”: il prodotto, quindi, probabilmente sarebbe risultato poco appetibile sugli scaffali; c’è chi sostiene anche che la buccia poteva essersi annerita troppo perché le banane potessero essere messe in vendita in condizioni così poco attraenti.

“Tempo di decomposizione della buccia di banana: 5-6 giorni. Tempo di decomposizione del polistirolo: mille anni”, recita uno dei post scritti su Facebook allegando la foto di tre banane che, con tutta quella plastica lucida intorno, più che frutta paiono un team di astronauti. La tecnica degli imballaggi di plastica è spesso utilizzata per combattere la piaga dello spreco alimentare, dimenticando però che in maniera inversamente proporzionale, in questo modo, si favorisce l’aumento dei rifiuti.

La “Ellen MacArthur”, Fondazione con sede a Chicago che offre aiuto a svariate organizzazioni senza scopo di lucro, ha di recente condotto uno studio che ha portato a una conclusione allarmante: se la sovrapproduzione di plastica procederà con il ritmo di oggi, nei mari del 2050 navigheranno più rifiuti che pesci, e i fondali saranno invasi dalla plastica. Ciò comporterà anche, come sta già accadendo, che moltissimi animali saranno condannati a morte per l’ingerimento di frammenti più o meno grandi di quella plastica che non riusciamo a smaltire, ma neanche a smettere di produrre.

Da esseri umani, negli ultimi anni, abbiamo dimostrato di essere poco lungimiranti e di temere le catastrofi naturali (e non) solo dopo averle totalmente sottovalutate. La lotta per la tutela dell’ambiente e la salvaguardia del pianeta ci sono sempre sembrate battaglie contro i mulini a vento, un problema inesistente, fintanto che la terra ce la vedevamo ancora sotto i piedi. Incapaci di fiutare il pericolo e prevenirlo, ne riconosciamo l’entità solo una volta che lo stesso ci ha investiti privandoci di tutto, condannandoci a piangere lacrime di coccodrillo una volta assodato che ciò che perdiamo, lo avremo perso per sempre.

È successo anche con il Covid-19, lungamente sottovalutato e deriso anche dai leader politici, schernito perfino adesso: chi porta la mascherina in luoghi affollati e igienizza spesso le mani è trattato come un ipocondriaco, un folle o un ossessionato, eppure mascherina e igienizzante sono gli stessi strumenti che quattro mesi fa ci parevano vitali, indispensabili.

Nonostante questo, il Covid è riuscito là dove l’uomo ha sempre fallito: far respirare il pianeta. C’è voluta una pandemia perché l’aria si ripulisse, il cielo sopra le metropoli tornasse limpido, gli animali potessero deporre le uova senza il disturbo dell’uomo. E non contenti, dopo i chiari messaggi della natura che ci mostra quanto il genere umano sia assolutamente accessorio nel mondo, abbiamo continuato a ignorare sia l’emergenza Covid che l’emergenza ambientale. La memoria corta dell’uomo lo porta a imballare banane già sbucciate in goffi involucri di plastica che resteranno arenati sulle spiagge, un’azione così priva di responsabilità che il post sopracitato si chiude con un inappellabile: “l’uomo è l’involuzione della scimmia”. Perché se fossimo scimmie sapremmo che se il luogo in cui dormiamo, ci nutriamo e viviamo cadesse in malora, dovremmo fuggire o peggio: rischieremmo di non averne uno nuovo.

Costruiamo telefoni innovativi che si sbloccano con le nostre impronte digitali, ma ci pesa sbucciare una banana. Siamo il frutto più fastidioso del pianeta, quello che sembra dolce e poi è velenoso, che sembra bello ma dentro è marcio, quello che sotto mille noiosi strati di buccia rivela nient’altro che il nocciolo.


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