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Se dice sempre che il leone è er re della foresta, pure si nun è l’animale più temibile: ce so’ ragni che te fanno secco co’n pizzico. Nun è manco er più bello o er più elegante: i pappagalli indossano certi colori da fa’ invidia agli stilisti d’alta moda e le giraffe c’hanno i colli più lunghi dei ritratti de Modigliani. Abusivamente il leone s’era appropriato de quer titolo come quelli che se credono d’esse gran signori in virtù dei soldi. “Che ve piaccia o no, io so’ nato co’ la corona in testa” argomentava, mostrando la criniera come prova provata. E, sentendo il suo discorso da politico de lungo corso, pareva che er potere je spettasse de diritto.
Un giorno però, muovendosi nella foresta, se ritrovò la zampa incastrata dentro a ‘n legaccio fatto de corda. Era ‘na trappola piazzata là da quarche cacciatore. Più s’agitava pe’ liberasse, più il laccio je se strigneva attorno. “Aiutateme” ruggiva tremando, “Aiutateme. So’ er vostro re!”, ma nessuno c’aveva coraggio né vojia d’avvicinasse. Sortanto ‘n topo s’affacciò e non perché quello ‘ntrappolato era er re della foresta, ma perché era n’animale come tutti l’altri: come se fa a vede’ quarcuno sofferente e nun fa’ niente? “Te supplico” promise il leone ar topo pe’ invojiallo “Si me liberi, te farò principe, smetterai de vive’ rintanato e ordinerò ai gatti de fa’ l’inchino quanno passi”.
A quell’esserino della ricompensa nun je fregava niente. C’aveva ‘n dubbio solamente: “Nun è che me magni appena te libero?”.
“Ma te pare?” quasi s’offese il leone d’un pensiero tanto ignobile. “Nun te magno, t’assicuro! E poi sei tarmente piccolino che nun me basteresti manco p’aperitivo…”.
Quanno la canna der fucile apparve all’orizzonte, d’istinto er topo s’affrettò a rosicchia’ coi suoi dentini la corda, filo dopo filo, fino a spezzalla. Giusto in tempo schivarono la pallottola, fuggendo uno da ‘na parte e uno dall’artra.
L’indomani nella foresta era tutto ‘n brusio tra le foglie. “Chi l’avrebbe mai detto? ‘n topo che salva ‘n leone!” raccontava quarche animale che da lontano aveva osservato la scena “Si nun l’avessi visto co’ l’occhi miei, nun ce crederei”. Ce s’era accorti che l’animali piccoli, a torto ritenuti inutili, possono esse’ preziosi perché riescono a fa’ cose di cui quelli grossi nun so’ capaci. Ce s’era accorti, soprattutto, che esse’ ‘n signore nun è ‘n titolo acquisito, ma va conquistato. La natura non ha creato nessun re, so’ re tutti quelli che se comportano bene.
Più i commenti giungevano alle orecchie del leone, più quello se sentiva sminuito. “Chiamateme quer topo” ordinò all’animali della foresta, dandosi arie magnanime, “Vojio ricompensallo”.
Al roditore pareva brutto presentasse a zampette vuote e je portò in dono ‘n fiore. ‘Sto secondo gesto de nobiltà montò ancora de più l’ira del leone: doveva mette’ fine a quer confronto da cui usciva perdente. Co’n unghiata afferrò er topo pe’ la codina e se lo pappò.
Davanti a ‘na simile ingiustizia, tutti fecero ‘n passo indietro: “Vergogna!” se sentì tra la folla.
Da sempre l’animali nun portano vestiti, ma pe’ la prima vorta il leone se senti’ nudo e, ner tentativo de salva’ la faccia, improvvisò: “Ecco che fine fanno i traditori! Davero ve credevate che quer sorcio era tanto bono e tanto coraggioso d’avemme salvato? Quello ar cacciatore s’era venduto la pelle mia in cambio de ‘n pezzo de formaggio! Purtroppo pe’ lui, me so’ riuscito a libera’ e oggi pensava de scusasse portandome ‘n fiorellino…”.
Più che de ‘na criniera, la natura aveva dotato il leone de ‘na lingua capace d’ignobili menzogne.
Così i re abusivi mantengono il proprio scettro: da falsi, confondono la verità; da peggiori, eliminano i migliori; da sporchi, sporcano i puliti. Finché il regno diventa ‘na giungla.
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