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Siamo quello che ricordiamo anche durante una bufera improvvisa e la memoria appare l’unica luce accesa che ci riconduce a casa.
I mesi di lockdown hanno cristallizzato i progetti ed è forse per questo che, a volte, ci siamo rifugiati nei cassetti dei ricordi. Teche delle memorie diventate arnesi indispensabili per mettere in pratica strategie di R-Esistenza continuando a depennare sul calendario i giorni che avrebbero portato ad aprire le porte e le finestre delle nostre vite.
Ci hanno fatto compagnia le parole, le visioni, gli ascolti scambiati al telefono o nelle chat. Un dare e avere di storie nelle storie in cui hanno trovato terreno fertile suggestioni e riflessioni. Nei giorni sospesi dell’attesa, ad esempio, è cominciata a frullarmi in testa una canzone. Compariva a tratti nel bel mezzo di un pensiero e fa così: “Marciavamo con l’anima in spalla/ nelle tenebre lassù ma la lotta per la nostra libertà/ il cammino ci illuminerà/ Non sapevo qual era il tuo nome/ neanche il mio potevo dir/ il tuo nome di battaglia era Pinin ed io ero Sandokan./ Eravam tutti pronti a morire/ ma della morte noi mai parlavam/ parlavamo del futuro/ se il destino ci allontana/ il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà/ Mi ricordo che poi venne l’alba/ e poi qualche cosa di colpo cambiò/ il domani era venuto e la notte era passata/ c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà”…
Si chiama “E io ero Sandokan”: titolo un po’ bizzarro quanto evocativo di atmosfere salgariane, pur non avendo nulla a che vedere con Emilio Salgàri. Il brano fa parte della colonna sonora di “C’eravamo tanto amati” – film di Ettore Scola del 1974, inserito nella lista delle “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978” – e porta la firma di Armando Trovajoli. Lo stesso Trovajoli che ha scritto per la commedia “Rugantino” la musica di “Roma nun fa la stupida stasera” su testo di Garinei e Giovannini. Si tratta di una delle tre canzoni italiane più conosciute al mondo insieme a “Nel blu dipinto di blu” (o Volare) e “O Sole mio”.
Nei miei giorni di lockdown “E io ero Sandokan” risuonava come l’eco di una memoria italiana stratificata tra il passato, il presente e il futuro. Tenebre, libertà, morte, destino, anima in spalle, sole, cielo: parole, simili a sassi gettati in uno stagno, si aprivano in cerchi concentrici e ne racchiudevano una per tutte: R-Esistenza. Una parola madre che – al di là del contesto storico a cui la canzone fa riferimento – suggeriva che vivere e, dunque, esistere in alcuni momenti coincide con resistere. Per R-Esistere nel bosco delle paure e delle incertezze anche i bambini si danno coraggio, fantasticando di essere eroi o magari canticchiando una canzone nel buio finché non arriva l’abbraccio dei sogni.
Con “E io ero Sandokan” è riaffiorata anche l’eco di un’intervista ad Ettore Scola andata in onda il 29 settembre 2013 a “Che tempo che fa” su Rai Tre. Durante quella conversazione Scola disse più o meno che le tre cose per lui “irrinunciabili” erano una matita, un uovo e una palla. E ne spiegò così il motivo: la matita «[…]diventa una protesi del tuo pensiero, anche delle tue distrazioni[…]»; l’uovo «[…] l’oggetto più bello del mondo e il cibo che mi piace di più[…]…» e la palla «[…] non per calciarla ma perché somiglia a tante cose, somiglia alla terra[…]». Viene da pensare quanto preziose siano certe piccole cose, certe giuste attenzioni, certe visioni accorte della quotidianità, certe parole lasciate in dono che, come onde marine, tornano a riva nei giorni difficili. E mentre ricordi ti ritrovi a fischiettare “…con l’anima in spalla…” prima che arrivi il sonno e, con il sonno, i sogni.
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