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Come una scatola su cui c’è scritto “Fragile”. Come un avvertimento a maneggiare con cura, un invito alla gentilezza e al tatto empatico, per educare l’interlocutore alla consapevolezza di avere davanti un’anima è un corpo martoriati. “Quello che mi è capitato non mi definisce” è il pronto appello lanciato dai giovani che su TikTok, social intrattenitivo al centro del panorama tecnologico odierno, aderiscono al Denim Day, il giorno dedicato alle vittime di violenza sessuale. Anticipata dall’hashtag “#denimday” e dalla propaganda dell’influencer Chiara Ferragni sui propri social, l’iniziativa è stata visualizzata quasi 94 milioni di volte.
L’obiettivo è quello di infondere coraggio alle tante, troppe persone, specialmente giovani, che non sono ancora riuscite a parlare del trauma subìto a causa delle violenze ricevute. Non solo messaggi pericolosi, quindi, corrono lungo la fitta rete di utenti di TikTok: stavolta le mani si stringono e gli abbracci si sentono, anche se a distanza, stavolta la rete fa il suo dovere molto più che in tante altre occasioni passate: collega e avvicina.
Forse non tutti sanno che la “Giornata del jeans”, svoltasi lo scorso 29 aprile, ha radici italiane. Venne istituita in California nel 1999, in segno di protesta nei confronti di una sentenza della Corte di Cassazione italiana che annullò una condanna per stupro a carico di un istruttore di guida nei confronti di una ragazza di 18 anni, riconoscendo il rapporto violento come consensuale e adducendo come motivazione il fatto che la giovane indossasse jeans troppo stretti per poter essere tolti senza il suo consenso. Così, il Denim Day su TikTok, oggi, imprime il proprio significato nei video girati dalle vittime, in cui vengono mostrati i vestiti, spesso ridotti a brandelli, che indossavano nel giorno in cui hanno subìto violenze. Felpe, maglioni, tute e, per l’appunto, jeans: indumenti quotidiani, ben lontani dal dogma urbano che vuole che siano violentati solo coloro che indossano abiti succinti. Uno dei tanti tentativi di sensibilizzazione a non ridurre tutto a un digiuno “te la sei cercata”, come anche fece l’indimenticata mostra americana “What were you wearing?” (“Come eri vestita?”), inaugurata dall’Università del Kansas, nella quale si esponevano i vestiti indossati dalle vittime nel giorno della violenza sessuale subìta.
Una sorta di “materna ispirazione” che, probabilmente, ha aiutato i ragazzi di TikTok ad uscire allo scoperto, riadattando le regole della celebre esposizione alle proprie esigenze e al proprio linguaggio.
Alcuni ragazzi si fanno riprendere mentre ballano, ridono e giocano, per mostrare al pubblico che si può rinascere, che si può accettare il dolore e procedere con la propria vita anche dopo traumi di questa portata; altri tracciano dei segni di pittura rossa sul proprio corpo, nei punti in cui sono stati aggrediti, per imprimere simbolicamente l’abuso vissuto, perché le immagini, a volte, sono logorroiche e le parole no, perché troppo spesso è più facile far capire che dire. TikTok si fa portavoce di una pluralità di violenze, ragazzi, ragazze, giovani uomini, giovani donne: non c’è violenza di genere nel Denim Day di TikTok, perché la violenza non ha genere.
Nella vita ci accade quello che programmiamo di fare, ma anche quello che non abbiamo scelto e non avremmo scelto neanche potendo. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di non autocolpevolizzarsi ristagnando nella propria condizione di vittima, di non arrendersi ad essere identificati per tutta la vita solo con la violenza subìta e di rendersi compartecipi e proattivi nei confronti della vita che continua, che può ripagare, che può ancora brillare e, talvolta, nuovamente opacizzarsi, ma senza mai perdere la consapevolezza di essere molto più del contenitore di un’aggressione, del paragrafo asettico nei racconti di cronaca.
C’è di più: uscire allo scoperto con storie così potenti, scegliendo l’enorme bacino degli utenti dei social come pubblico, esporsi in maniera così totale, con i propri occhi, il proprio viso e la propria voce, è un grido che chiede di rispettare il vissuto altrui, non giudicarlo e non compatirlo, ma solo tenerlo presente. Proprio come gli scatoloni su cui c’è scritto “fragile”: una richiesta di cautela, un avvertimento che qualcosa può rompersi ancora, la promessa di tacere e ascoltare strappata a chi sui social urla, sbraita e aggredisce senza appello. Il valore del metallo non sta nella sua perfezione, ma nei graffi che testimoniano la sopravvivenza all’impatto.
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