Illustrazione di Sébastien Thibault
6 minuti per la letturaPiero Bevilacqua, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma “La Sapienza”, nel 1986 ha fondato con altri studiosi l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes), di cui è presidente, dirigendone anche la rivista Meridiana.
Storico e saggista si occupa, tra l’altro, di storia del Mezzogiorno, di storia e risorse dell’ambiente e del territorio. Collabora a riviste italiane e straniere e ha pubblicato numerosi libri, rinnovando il dibattito su consumo dei suoli, rifiuti, questioni energetiche, riscoperta della relazione città-campagna. È uno degli studiosi chiamati a partecipare al Manifesto Food for Health (Cibo per la salute) promosso da Vandana Shiva, fisica quantistica ed economista militante ambientalista, considerata la teorica più nota dell’ecologia sociale.
Professore Bevilacqua, ci eravamo lasciati qualche tempo fa con una conversazione sulla felicità in occasione del Suo libro “Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo” (Laterza, 2017). Con lo tzunami del coronavirus si può ancora parlare di felicità? Possiamo essere ancora felici?
«Sì, nel senso di godere di sicurezza, benessere sociale, libertà».
Qualche anno fa è nato “iHappy” un indice social per misurare l’andamento giornaliero della felicità attraverso l’analisi del contenuto emotivo dei tweet, ma la felicità è un diritto?
«Certo che lo è, per lo meno da quando nasce lo stato di diritto (la Costituzione americana, che è del 1787, ad esempio lo prevede) che assegna al governo delle nazioni il compito di offrire agi e benessere ai cittadini. Naturalmente il termine felicità, nel lessico attuale, è carico di significati edonistici, che suonano incongrui quando si ragiona di questioni civili. Il termine felicità quale bene da far godere al popolo, compito supremo del principe illuminato e in genere dello statista, ha cominciato a circolare negli scritti degli illuministi italiani e poi tra i rivoluzionari francesi. Ma oggi ci accontenteremmo che al popolo, cioè ai ceti subalterni, fosse concesso di vivere dignitosamente e in libertà dal bisogno».
In quel libro paesaggio, arte, musica e cibo erano i quattro pilastri da Lei indicati per parlare di felicità “made in Italy” , ora però devono fare i conti col distanziamento sociale?
«Sì, almeno in parte, nel senso, ad esempio, che non possiamo godere la bellezza delle nostre città, girando per le piazze che amiamo, ammirando i monumenti, gli scorci e i paesaggi urbani che hanno plasmato il nostro immaginario. Però possiamo ascoltare la musica anche stando a casa, non è certo come ascoltare un concerto al Santa Cecilia, ma l’ebrezza magica dei suoni riesce a raggiungere l’anima. Per non dire del cibo. La cucina italiana, con la sua varietà inarrivabile, ha anzi la possibilità di rifiorire nelle nostre case, mancando la fretta di recarsi al lavoro o per assolvere i mille compiti in cui ordinariamente si sbriciola il tempo quotidiano. Si resta a casa, si cucina, si mangia con la famiglia con gusto e lentezza».
E qual è il ruolo delle città in una visione non utopistica di felicità contemporanea?
«La città è il luogo per eccellenza delle relazioni umane, dove dovrebbero essere bandite le malattie della società capitalistica contemporanea: la fretta, l’egoismo individualistico, la competizione, il consumismo bulimico, la privatizzazione degli spazi pubblici, la trasformazione di ogni angolo urbano, ogni frammento vivente, in merce da vendere e acquistare. Le nostre città – come tutte le città del mondo – sono nate per dare sicurezza, conoscenza reciproca, vita comunitaria, gioia di vivere ai suoi abitanti, ma oggi sono creature in via di estinzione. Il loro trascinamento nell’economia di mercato, attraverso la privatizzazione crescente dei beni pubblici, lo sfiguramento ad opera del turismo di massa, lo svuotamento degli abitanti dei centri storici e la loro sostituzione con folle consumistiche, faranno della città un luogo di stress e di edonismo degradato. Naturalmente non si tratta di un processo spontaneo e inevitabile, ma di una scelta consapevole e miope delle nostre classi dirigenti, culturalmente mediocri, prive di una memoria alta del nostro passato e di un pensiero lungimirante per il nostro avvenire».
A Suo giudizio, c’è un’immagine che meglio di altre ci accompagnerà negli anni quando ci sarà chiesto di raccontare questo tempo messo sotto assedio dal virus? Io penso, ad esempio, a quella di Papa Francesco in una piazza San Pietro deserta…
«Anch’io sono rimasto emozionato e colpito da quella immagine semplice, solenne e desolata. Anche il colore di Piazza San Pietro, abbracciata dal colonnato del Bernini, contribuiva, con la spenta luminosità della sera, mentre piovigginava, a dare a quel quadro una dimensione fuori del tempo. Per la verità, a me è sembrato che Papa Francesco fosse un Angelo bianco sceso dal cielo che consegnava a un Dio sconosciuto l’umanità ormai estinta».
Per Castelvecchi nel 2018 ha pubblicato “Ecologia del tempo. Uomini e natura sotto la sferza di Crono” in cui Lei parla di un’asimmetria temporale drammatica tra evoluzione geologica e tempo della Storia umana. Cosa ci ha insegnato l’esperienza del lockdown nella gestione del tempo tra le pareti domestiche?
«A dispetto del portato tragico della pandemia (oltre 30.000 morti), il coronavirus ci ha restituito il tempo della nostra vita, il tempo della cura di sé, del rapporto coi propri congiunti, gli animali di casa, gli amici e il prossimo attraverso l’etere. Chi è stato capace di osservare con occhi critici la propria esperienza ha potuto constatare quanto l’organizzazione sociale capitalistica ci ha letteralmente spogliati del nostro tempo, speso diuturnamente per lavorare, consumare, utilizzare dispositivi elettronici, che creano valore e profitti per i colossi dei media».
Il prossimo libro in uscita è dedicato a Spinoza e anche qui si parla di felicità…
«Si intitola esattamente “Baruch l’infernale. Spinoza e la democrazia degli uguali” e dovrebbe uscire a giugno per Castelvecchi. Spinoza, come è noto, ha dedicato l’Etica, un capolavoro del pensiero umano, a quello che potremmo definire il tema della felicità. Non è possibile qui entrare nel merito più di tanto. Basti dire che Spinoza non condannava le passioni, esortava a liberarsi delle “passioni tristi” e invitava a canalizzare la loro spinta vitale per aderire profondamente all’essere universale, un Dio che coincideva con la natura. Ma non si tratta di una visione mistica, la felicità di Spinoza si inscrive all’interno di una società laica e democratica, in cui potere religioso e civile sono separati. Essa si può conseguire cercando di non fare ad altri quello che non si desidera sia fatto a se stessi, battendosi perché il diritto degli altri sia riconosciuto come il proprio. Solo nell’uguaglianza e nella reciprocità di diritti e doveri e non certo tramite la competizione e l’agonismo – princìpi bellici instillati dall’ideologia capitalistica – si può essere felici».
Quali saranno le parole che ci aiuteranno a scrivere il futuro?
«Solidarietà innanzi tutto. La solidarietà è stata messa nell’angolo (noi ci giriamo da un’altra parte quando le autorità italiane impediscono lo sbarco ai migranti disperati) da scelte politiche e ideologiche da parte di vari gruppi politici e di governo, che sull’odio e la paura dello straniero lucrano fortune elettorali. Ma queste posizioni sono il cascame rozzo e incolto dell’ideologia attuale delle classi dominanti, che esaltano la competitività e il darwinismo sociale come credo per il prosieguo del saccheggio del pianeta. L’altra parola sarà cura, della salute pubblica, tramite strutture mediche diffuse e insediate nel territorio, e cura della natura che è la nostra casa comune».
Chiudiamo con “Il sole di Tommaso” (Castelvecchi ,2018) il libro che Lei ha dedicato al filosofo Campanella. Quali sono oggi le utopie a cui non dobbiamo chiudere la porta?
«In parte ho già risposto. Campanella aspirava a una Città del sole, una società comunista egalitaria. Noi, quanto meno, non dobbiamo rinunciare a chiedere una società nella quale sia rispettata la dignità di tutti e in cui, come dice spesso Papa Francesco, nessuno sia lasciato indietro».
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