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Chi ha rispettato rigorosamente le regole, negli ultimi mesi si è limitato ad affacciarsi sulla vita, a salutarla sbracciandosi da lontano. Da domani sarà consentito fare un piccolo, timido passo, per raggiungerla.
Potremo andare a trovare qualcuno a cui vogliamo bene, fornendo l’autocertificazione dell’affetto come unica comprovata necessità. Sarà bello. Sarà difficile. Sarà un impasto di desiderio e di spavento, senza poter distinguere dove finisce l’uno e comincia l’altro. Sarà incontrarsi e chiedersi a voce più o meno bassa: “Posso avvicinarmi?”. A che rischio ti espongo? A che rischio mi espongo?
Si dice che le parole possono arrivare a toccarti in profondità fino all’anima. Vero.
Si dice che un silenzio può non essere muto e uno sguardo può contenere più complicità di quanta ce ne sia in un amplesso. Verissimo.
Ma conosco l’immensità del contatto con una mano tanto attesa, conosco il mare che può esserci dentro gli argini di un abbraccio e mi fa paura l’idea di perdere la naturalezza di quel gesto, di temerlo persino.
Non voglio tornare al mondo di prima – era guasto e la storia ce lo sta dimostrando – ma vorrei comunque abitare in un mondo in cui le lacrime sono contagiose come i sorrisi, né più né meno.
Le case sono diventate, oltre ai nostri rifugi, le nostre gabbie.
Da domani inizierà a esserci uno spiraglio. E mentre alcuni sono pronti a spalancarlo e a precipitarsi fuori, mi chiedo se avremo tutti il coraggio di uscire.
Si può restare fermi in una gabbia aperta.
“Andrà tutto bene”, “Ce la faremo” ripetono ciecamente striscioni e slogan recitati come un mantra.
Ma soltanto se daremo voce alle paure, riusciremo a superarle, perché le paure espresse sono meno pericolose di quelle taciute. E raccontandoci davvero, ci accorgeremo che nessuno è solo.
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