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«Credo di essere il miglior amico di me stesso» e mentre lo dice aggiunge «puoi trascorrere tanto tempo con le persone ma non sarà mai equiparabile a quello che passerai in tua compagnia. Per questo motivo è necessario imparare a volersi bene, ascoltarsi, parlarsi interiormente così da stabilire un legame molto forte con se stessi».

Inizia a raccontarsi così il dottor Samer Kassem, nato e cresciuto in Siria, oggi cardiochirurgo di fama internazionale – c’è chi lo definisce, a ben ragione, un luminare – che opera al Monzino di Milano, uno dei centri d’eccellenza per questa specialistica. Al suo attivo il dottor Kassem ha – oltre ad essere stato il più giovane chirurgo al mondo – l’invenzione di una tecnica innovativa per trattare i problemi della valvola mitralica.

Ma alla sua genialità, o per meglio dire alla genialità delle sue mani, è affidata anche un’altra capacità, quella di saper dipingere. Eh già, perché il dottor Kassem all’arte, anzi ai suoi quadri, affida il compito di raccontare quelle emozioni che sente ma che non trovano sfogo con la parola.

Lei è un cardiochirurgo e la sua fama è riconosciuta anche oltreoceano ma è anche un pittore. Come riesce a far combaciare questi due mondi dove il fulcro sono sempre le mani?

«Questi due mondi sono radicati in me come passione e quindi, essendo tali, li guardo, gestisco e affronto con importanza e dedizione. Nella professione medica sono il cardiochirurgo che risolve problemi e che fa del suo meglio anzi dà il massimo per i suoi pazienti. Tolto il camice, posato il bisturi, impugno i pennelli per dar voce al mio spirito. Trovo nella pittura la capacità di esprimermi. Dipingo la notte, quando sono a casa. Essendo un genitore unico, papà di due splendidi ragazzi, dopo essermi preso cura di loro, inizio o porto a termine le mie tele. Spesse volte trovo il tempo il sabato e la domenica».

I suoi quadri, a guardarli, trasudano d’umanità. I colori forti che utilizza e i soggetti raffigurati si rifanno al periodo impressionistico. C’è un aggettivo, secondo Lei, che li accomuna tutti?

«Mi preme fare una precisazione iniziale. Venendo da un’altra cultura, quando ero nel mio Paese d’origine – dove ho frequentato anche l’accademia delle belle arti – usavo colori totalmente diversi, meno forti di quelli che ho iniziato ad usare, per dipingere, da quando vivo in Italia. Questo perché l’impatto che ho avuto con l’Italia anche e non solo emotivamente è stato profondo, su alcune cose mi ha segnato, su altre mi ha arricchito. La caratteristica che li accomuna, però, è che i colori sono quelli che osservo nella realtà nel momento stesso in cui inizio a dipingere. Più che un aggettivo, i miei quadri hanno tutti una caratteristica: la luce».

Lei nasce in Siria, precisamente a Latakia, studia a Damasco e poi arriva in Italia. Qui ha perfezionato la sua capacità chirurgica. Ad oggi, che senso dà alla medicina?

«Per prima cosa le do un senso meritocratico. Questo l’ho imparato nel mio Paese, la Siria, dove lo Stato garantiva a chi era bravo di studiare di andare avanti fino in fondo. Poi le do un valore. È una missione. Come medico mi sento puro dentro e per me la medicina sarà sempre considerata come una missione umanitaria».

Cosa La differenzia dagli altri medici?

«Quello che mi distingue dagli altri colleghi e, lo dico a voce alta perché loro lo riconoscono, è fare in modo che il cervello scientifico, l’interesse e la passione che ho per la ricerca vada di pari passo con una mano velocissima e precisa. Cosa di cui sono dotato. In cardiochirurgia la velocità è molto importante. Un intervento al cuore prevede anche che quest’ultimo venga fermato e messo in extracorporea – è un cuore artificiale che sostituisce, durante l’operazione, in maniera temporanea, le funzioni cardio-polmonari – a livello scientifico più si va lenti durante l’operazione più il cuore rimarrà nello stato extracorporeo che crea un danno al corpo del paziente. Per questo motivo vengo scelto per diverse operazioni dove c’è bisogno di tempestività».

Dal 2011 ad oggi, in Siria, ci sono stati più di 380mila morti, di cui 22mila bambini. Secondo Lei, da siriano, perché tutto questo inferno non riesce a trovare una fine?

«L’errore più comune è che la guerra in Siria sia analizzata soltanto sotto l’aspetto religioso. Si crede che tutto quello che sia successo è solo per motivi religiosi, ma non è così. In Siria i motivi che spingono alla guerra sono altri. Quello che succede nasce tutto da interessi economici. C’è una macchina da guerra che calpesta le vite umane e non è comandata da una religione o da una dittatura, ma da interessi internazionali».

C’è un proverbio che ha sentito spesso ripetere dai suoi genitori?

«Mia madre diceva sempre che la caduta di una persona non è un fallimento, ma è un fallimento rimanere dove si è caduti».

Un proverbio, invece, che Lei non smette di ripetersi?

«Mi ripeto spesso e per la verità lo dico sempre anche ai miei figli che “Se vuoi vivere felice, collega la tua vita a degli obiettivi e non a delle persone”».

Ne ha un altro?

«In sala operatoria, ad esempio, ripeto prima di ogni intervento “Dio è con noi”. Tanto che i miei colleghi mi prendono in giro, mi dicono: quindi, agli altri esseri umani, oggi, Dio li deve trascurare? Certo che no, “Dio è con tutti ma anche con me”».

Una parola da salvare?

«Amore».

Che cos’è per Lei l’amore?

«L’amore è tutto. Quando opero un paziente, ad esempio, io amo il mio paziente. L’amore è una ragione per la quale vivere, è entusiasmo, progettualità, il motore di tante cose».

Una parola secondo Lei dimenticata?

«Fiducia. Nessuno più crede nell’altro. L’uomo non crede più nell’uomo».

Una parola abusata?

«Direi di nuovo amore, che come sentimento viene ormai svenduto. Non ha più dignità questo sentimento e la parola è stata, nel suo abuso, svuotata di significato».

Lei è felice?

«Sono felice quando rendo felice un mio paziente. Dico sempre una cosa, prima di operarlo, tocco il suo cuore, devo averne cura, come se fosse quello dei miei figli».


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