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Quando si affaccia lo spauracchio della guerra, parlare d’altro è difficile.
Non c’è spazio per un argomento diverso: non c’è niente di più umano del corpo di un uomo e della sua sofferenza; la più bella poesia non potrà mai valere la pelle di un soldato; l’opera completa di un Nobel non avrà mai la stessa importanza dell’accenno del pianto di una madre o di un bambino, della vita resa maceria, della carne trattata come carne da supermercato.
La guerra c’è chi la comanda e chi la combatte, e l’uno non coincide mai con l’altro, altrimenti di guerre non ce ne sarebbero. Basta guardare quelli che comandano il mondo: quanti di loro sarebbero disposti a schierare in prima linea se stessi o i loro figli?
Pochi minuti dopo l’annuncio dell’assassinio di Qasem Soleimani è scattata sui social, alla televisione e sui giornali, la solita maratona di commenti netti e diametralmente opposti, con la facilità con cui s’intavolano discorsi al bar: “Era un terrorista”, “Era un santo”.
Scoprire che un numero tanto elevato di italiani conosce così a fondo la politica iraniana mi rincuora. Che esperti!
Eppure il nostro Paese è analfabeta quando si tratta di leggere la propria storia: ancora non sappiamo far luce su Tangentopoli. A distanza di decenni, produciamo film che raccontano i chiaroscuri di Craxi, Andreotti, eccetera. Non sappiamo distinguere i nostri buoni dai cattivi, ma siamo pronti a giudicare i buoni e i cattivi degli altri Stati, col rischio – voluto o inconsapevole – di provocare un incidente diplomatico.
Abbiamo raggiunto una tale avventata superficialità che esprimiamo il nostro pensiero prima ancora di averne davvero uno: lo formuliamo senza averlo compiutamente elaborato.
Forse se l’Italia deve ancora fare i conti con il proprio passato è proprio perché da sempre si perde nel commento, senza mai prendersi prima il tempo di capire.
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