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Enzo Avitabile è uno dei grandi della world music, del jazz e del soul. Nato a Napoli nel 1955, ha collaborato con grandi artisti come James Brown e Pino Daniele. Tiene concerti in tutti il mondo, e a testimonianza della sua caratura internazionale va segnalato il docufilm che nel 2012 gli dedicò Jonathan Demme, “Enzo Avitabile Music Life”. Lo abbiamo incontrato per intervistarlo all’interno della serie “Le parole che fanno casa” del supplemento “Mimì” del “Quotidiano del Sud”.

Dove si sente a casa Enzo Avitabile? Quando e dove Avitabile dice: “Ecco, ora sono a casa mia?”

«Casa mia è la musica. Casa mia è se faccio una cosa con l’orchestra del San Carlo o una cosa con i giovani rapper. La musica è la casa madre. Lì dove c’è musica lì c’è casa. Certo, Napoli è la casa ufficiale, ma se suono a Dubai, Dubai è casa mia, se suono a Londra, Londra è casa mia. Casa mia è la musica».

Davvero la sua casa non ha niente a che fare con la geografia?

«La cosa che per me resta fondamentale è il rapporto con la gente. È un rituale che finisce sempre allo stesso modo. Una volta mi dissero che in Bretagna, a Brest, il pubblico era freddo, che preferiva musica più d’indirizzo rock, poi ci siamo messi a suonare e ci siamo accorti che non erano freddi per niente. Ogni volta ci rendiamo conto che la musica, oltre ogni retorica, compie il miracolo: mettere insieme le persone attraverso l’emozione che, per quanto soggettiva, con la musica diventa sempre un fenomeno oggettivo di massa».

Lei ha sempre cercato la gente, il pubblico. Jean Paul Sartre diceva che “l’inferno sono gli altri”. Da dove le viene tutto questo bisogno di stare con gli altri? Gli altri non sono anche quelli che ci fanno del male, ci tradiscono, ci deludono?

«Io sto bene in mezzo alle persone. Nel grossolano quotidiano, negli sbattimenti, nei tumulti, nelle sofferenze io perdono, anche se provengo da una cultura che è abituata a colpevolizzare l’altro. La mia fede prevede il perdono. Devo certo prevedere la colpa dell’altro, ma il perdono è principalmente un mio ostacolo, perché perdonare è un ostacolo, non è che perdoni sempre, a volte ci riesci, altre volte non ci riesci, a volte fai finta. Quando sono ritornato cristiano in cammino ho imparato ad affrontare il perdono in maniera più consapevole, nel senso che il mio sentimento oggi è sempre accompagnato dalla consapevolezza che ci sono anche colpe mie. Ma con le parole si rischia sempre di essere retorici, di fare teologia, come diceva Carmelo Bene. Ecco perché dico: andiamo oltre le parole, concentriamoci di più sul vivente».

Che cristiano è Enzo Avitabile?

«Il Vangelo, al di là di tutte le discussioni su come e da chi siano stati scritti, è una parola che mi aiuta molto in questo percorso. Come della preghiera. La preghiera non la fai tu ma il tuo stato di coscienza. Noi con la musica non facciamo liturgia, ma un canto al servizio del popolo. Devo essere sincero: per me la preghiera è il rosario. Ma essere cattolico significa non dichiararlo. Ora perché me lo ha chiesto lei, ma io di mia volontà non ne avrei mai parlato. Perché dirlo non serve. È più importante dire il rosario».

E della morte cosa pensa?

«Della morte? Penso che mi fa paura, perché io sono uomo di tutti i giorni, sono come Pasquale, come Francesco, come Concetta. Ho paura di morire, però mi confronto anche con il mio atto di fede. Vivo come tutti il grossolano quotidiano, ma vorrei sempre suonare. Sono un uomo, un uomo comune di una terra comune. E ho paura di morire».

Le è mai capitato di intuire o scorgere un altrove vivendo, come dice lei, “il grossolano quotidiano”? Oppure Avitabile è tutto qua, tutto su questa terra?

«Io sono tutto qua. Ma c’è anche un pudore nel raccontare esperienze personali diverse. Nella musica scritta, nelle partiture, quando scrivi tornano prepotentemente le anime che prima di te hanno vagato sulla carta. La carta è importante, perché ti fa scrivere quello che hai in testa, ed è un’esperienza mistica. Ogni volta che scrivo per un attore, per un cantante o per dei gruppi cameristici sento l’esigenza di pregare, perché sento nel cuore una connessione che mi fa capire che in quel momento c’è una comunicazione che va oltre le parole».

Quali sono i primi suoni che ricorda?

«A casa mia si sentiva Sergio Bruni, quando ero piccolo. E poi i cantanti napoletani. Papà faceva benissimo il playback di Sergio Bruni. Poi ascoltando il juke-box da più grande mi sono reso conto che volevo cantare come James Brown, volevo diventare come lui, volevo anche incontrarlo, e l’ho anche incontrato, ma non sono diventato come lui, nessuno diventa mai come un altro, io sono dovuto diventare come sono io. È stato un percorso difficile, è stato un continuo mettere in discussione le identità, perché non voglio avere nessun vestito. Voglio solo essere musica».

Quali sono i primi ricordi, le prime parole che ricorda Enzo Avitabile?
Sempre la stessa cosa: ‘e mmane ncòppa ‘o groove. Un inno alla vita nasce ovunque. E Napoli? Da che verso la prende lei Napoli?

«Napoli è la casa madre, non scherziamo. I grandi musicisti del ‘700 napoletano, De Simone, i pittori della scuola di Posillipo, la musica degli anni ’80, le nuove generazioni, di che parliamo? Ma ci sono anche Pasquale, Francesco, Concetta. Qualcuno dice che è una questione di orientamento, di come ti poni rispetto a Napoli. Ma Napoli è anche quello che non è, è anche quelli che la criticano, è anche il grossolano quotidiano, le sue contraddizioni. Ma chi non ha contraddizioni? E a chi non piacerebbe fare inciuci, come diceva Mozart, dal proprio coiffeur? Sono un uomo fortunato. Perché sono amato alla Sanità, a Ponticelli, a Scampia, ma anche al Vomero e a Posillipo. E questo non grazie a me, ma grazie a colui che può, e che si chiama Don Salvatore».

La sua musica deve molto all’Africa. Cos’è per lei l’Africa?

«Nell’immaginario collettivo l’Africa è nera, e invece l’Africa è un punto luce. Dire Africa non significa niente. C’è questo grande studioso, Gigi Pezzoli, che ci sta insegnando che dell’Africa non si sa niente, nulla si sa della Grande Civiltà Africana. Per noi l’africano è ancora il nero cattivo, lo schiavo della piantagione, per noi l’Africa è il continente dei migranti, e invece è una storia immensa, che fa paura, penso agli yoruba oppure agli ashanti. L’Africa ci ha dato la poliritmia, che difficilmente avevamo noi. Il jazz senza la poliritmia africana non è comprensibile. Io mi sono collegato a questo tipo di realtà. In Africa abbiamo anche fatto tante cose con l’Unicef, abbiamo aperto una sala operatoria, ma queste cose si fanno e basta».

Cosa sono i soldi per Enzo Avitabile? La impensieriscono?

«I soldi in Italia preoccupano sempre, perché una parte importante del tuo lavoro torna allo Stato. I soldi preoccupano tutti, anche perché tutti aspirano a guadagnare facendo qualcosa di qualità. Ma spesso però questo non è possibile, e allora ti devi accontentare. Che devi fare? Siamo tutti figli di una realtà disagiata, inutile raccontare le solite storie, ma siamo cresciuti nel disagio. La cosa importante è che da bambini non ce ne siamo accorti, perché il Signore, quando sei piccolo, ti fa capire che non hai bisogno di niente».


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