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«È la prima intervista che faccio qui dentro» dice Vladimir Luxuria facendomi strada nel suo ufficio, ancora fresco di ristrutturazione.
«Mancano ancora tante cose» premette e mi descrive come apparirà l’ambiente ultimati i lavori e gli arredi.
Seguo lei, ma il mio sguardo è rapito da un mascherone che troneggia su una parete. Riproduce la Bocca della Verità, con un’unica differenza: le sue labbra di cemento sono pitturate di un rosso acceso.
Per fortuna i trasportatori hanno già consegnato il divano e ci sediamo lì.
Luxuria è ormai un personaggio del mondo dello spettacolo, ma è soprattutto un’attivista che ha contribuito a fare la storia dei diritti della comunità LGBT.
È stata lei, con La Karl du Pignè, a organizzare il primo Gay Pride di Roma nel 1994, lo stesso anno di Tangentopoli, facendo sorgere un bel dubbio: erano gli omosessuali a doversi vergognare o i ladri che rubavano i soldi dello Stato? Era più amorale l’omosessualità o la disonestà? È stata lei nel 2006 la prima transgender d’Europa a diventare parlamentare.
Che l’aspetto politico e sociale prevalgano in lei è evidente anche dalla sua risposta quando le chiedo quali sono le parole che per lei fanno casa. Luxuria pensa alla casa in generale e a quale parola potrebbe farci sentire tutti al riparo. «Per me fa casa la parola “solidale”».
Perché?
«Perché se si è solidali non siamo soli. Perché è un principio costituzionale: la solidarietà è un dovere (articolo 2). È una parola che ci fa sentire tutti a casa, contro l’egoismo di chi pensa “le disgrazie degli altri non sono fatti miei”. Chi è solidale fa sentire più forti le vittime e fa sentire che i violenti sono la vera minoranza da discriminare. Chi è solidale è anche solido, mantiene salda e immutabile la forma del suo amore».
Quali sono, invece, le parole che appartengono alla tua casa personale, al tuo lessico famigliare?
«Un’espressione che mi piace molto è “Chi sputa in cielo in faccia gli torna”. Mia madre lo diceva spesso e mi ha insegnato che nella vita bisogna sempre essere a credito. “Fai del bene e scordatelo, fai del male e ricordatelo”, perché comunque tutto torna, torna il bene e torna il male.
Papà, invece, mi diceva sempre “Chi ti battezza ti è compare”, nel senso che non devi avere pregiudizi: devi essere sempre pronto ad abbracciare chi ti si dimostra amico, chi ti aiuta, chi ti apre una porta. Vengo da una famiglia povera ma dignitosa e in casa risuonavano anche frasi tipo “Come arriviamo a fine mese?, Come facciamo a pagare questa bolletta? “Come facciamo a pagare il fitto?” . Tutto questo me lo sono sempre portata dietro».
Parlavate in famiglia della tua transessualità?
«No, da sempre si evitava l’argomento, anche se tutti sapevano, non potevano far finta di non sapere. Oltretutto andavo come opinionista, vestita da donna, al Maurizio Costanzo Show.
Una volta, in confidenza, dissi a Costanzo che con i miei genitori c’era questo muro di silenzio: in casa avevamo un rapporto freddo, formale, molto legato a “Cosa vuoi mangiare?” , “Com’è il tempo?” . Lui sentì che ne soffrivo. “Ti andrebbe se invito tua mamma e ne parliamo sul palco?”. Lasciai il numero di telefono di mia madre, sicura che lei avrebbe detto di no. Tu immagina una donna del Sud che davanti a tutta Italia deve parlare di cose così intime…».
Provo a immaginare. Oltre vent’anni fa, a Foggia, Maria Michela Guadagno, riceve la telefonata della redazione.
La invitano ad andare a Roma in puntata “a parlare di sua figlia”. Parlare di sua figlia significa parlare di transessualità: una questione all’epoca ancora innominabile. Quella donna del Sud sente i suoi piedi farsi di piombo. Anche soltanto per timidezza, vorrebbe rifiutarsi subito: sa già quanto è costato a Vladimiro mostrare la propria diversità fin da ragazzino; sa che certe lingue sono fruste. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, quella donna del Sud si mette in viaggio. Sul palco, davanti a milioni di telespettatori, dichiara “Auguro a mia figlia, così com’è, la felicità, perché se non accettiamo i nostri figli così come sono, li perdiamo”. Parlare della figlia è, per la prima volta, parlare alla figlia. Quel gesto è rivoluzionario: all’indomani della puntata, molti omosessuali non dichiarati trovano la forza di confidarsi con i loro cari.
«Sul palco è stata la prima volta che ne abbiamo parlato. Mia madre voleva togliersi quella zavorra e voleva toglierla a me» mi racconta Luxuria. E penso che è proprio così: sei libero davvero quando liberi anche l’altro del peso di un silenzio, altrimenti qualunque libertà è fittizia, è come restare dentro una gabbia aperta.
La storia di Luxuria è la storia di chi ha saputo trasformare la sofferenza in valore, la diversità in unicità, e così ha ribaltato il proprio destino.
Quando ha vinto “l’Isola dei famosi” nel 2008, una parte del montepremi Luxuria l’ha donata all’Unicef, con l’altra ha comprato casa ai suoi genitori. «Non l’ho mai detto a nessuno… però è vero. È una delle cose di cui vado più orgogliosa. È stato un mio modo di restituire ai miei genitori tutto quello che hanno fatto per crescermi, per consentirmi gli studi in un periodo di grave difficoltà. Mia mamma piangeva su una sedia col foglio dello sfratto esecutivo in mano e al mio arrivo si asciugava le lacrime per non farmi vedere che piangeva. Ogni volta che torno a Foggia sono contenta di vedere che non stanno più in una casa che non è la loro».
Hai avuto un’educazione cattolica?
«Sì, frequentavo la chiesa, insegnavo catechismo e facevo il chierichetto. Quando ho preso consapevolezza della mia identità di genere, ne ho parlato col parroco. Mi ha detto che, se volevo continuare a insegnare catechismo, non dovevo parlare con nessuno di “questa cosa”, dovevo nasconderla. Disse: “Dimenticati anche che ne abbiamo parlato”. Ho accettato il suo consiglio finché ho potuto, ma questa verità ogni tanto bussava e diceva “fammi uscire fuori” e a un certo punto ho dovuto scegliere tra me e la chiesa. Ho scelto me. Ho cominciato il mio percorso di cambiamento, però sentivo dentro un vuoto. Per dieci anni ho praticato buddismo: una religione/filosofia che non mi escludeva. Poi ho conosciuto un prete straordinario, don Gallo che mi ha messo in crisi: sosteneva che Dio ama tutti, anche le trans, e non c’è bisogno di cambiare per essere accettati in chiesa perché Dio ci capisce; dovevo quindi seguire la mia natura e non quelli che lui chiamava “i sepolcri imbiancati”, gli alti ecclesiastici che spesso hanno tante cose da nascondere. Don Gallo si è ammalato e sono stata al suo capezzale. Durante la sua malattia c’è stata l’elezione di papa Francesco, elezione nella quale don Gallo riponeva grande fiducia: “Questo è un papa nuovo, parla un linguaggio diverso” diceva. A Genova, al funerale di don Gallo, mi hanno chiesto di fare la comunione per essere in comunione con gli altri. Dopo decenni risentire il sapore dell’ostia misto alle lacrime che stavo deglutendo, è stata una grande emozione: mi ha riportata alla mia adolescenza. Mi sono riavvicinata alla religione cattolica, non da bigotta però: quando mi confesso non dico “Sono trans” perché quello non è un peccato».
C’è una favola che da bambino ti ha aiutato?
«“Il brutto anatroccolo” di Hans Christian Andersen. Andersen era un trans; amava un giovane ragazzo al quale scriveva “Io ti amo non come un uomo amerebbe un altro uomo, ma come una donna amerebbe un uomo perché io sento di avere un animo femminile”. Tutte le sue favole – Il soldatino di piombo, La Sirenetta, Il brutto anatroccolo – sono metafore della diversità e sono state il suo modo di sublimare la sua transessualità, che all’epoca era irrealizzabile. Il brutto anatroccolo per me era colui che si sente diverso da tutti e a un certo punto trova i suoi simili, i cigni. È quello che ho provato la prima volta che sono entrata in una discoteca gay a Milano. Mi sono detta: “Allora non sono sola. Posso anche divertirmi, ballare, bere un drink, corteggiare una persona senza che nessuno mi picchi: è stata una bella sensazione».
Nelle tue interviste dici spesso “Non hanno vinto loro”. Chi sono loro?
«Quelli che vogliono un mondo in cui prevale l’apparenza sulla sostanza, sull’essenza, sull’anima, sulla verità. Se ti travesti da quello che non senti di essere, allora vincono loro».
Cosa diresti oggi a Vladimiro bambino?
«Avevi ragione tu. Hai fatto bene a scegliere la libertà».
Saluto Luxuria.
Avviandomi verso l’uscita, do un’ultima occhiata a quell’insolita Bocca della Verità con il rossetto e la trovo bella. Mi piace pensare che le labbra di quel mascherone di cemento non sia stato un muratore a dipingerle. Mi piace pensare che quel mascherone abbia braccia e mani dietro la parete e si sia concesso da solo quel vezzo. Mi piace pensare che persino una statua, a suo modo, lotti per prendersi la propria libertà.
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