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«Se tuo fratello si butta da un ponte, tu che fai? Ti butti pure tu?» mi chiedeva chi mi osservava imitarlo ciecamente.
A cinque, sei anni, rispondevo sì.
Volevo fare i giochi che faceva lui.
Volevo vedere i cartoni animati che vedeva lui. I protagonisti erano calciatori, soldati, guerrieri, lottatori, robot.
Non mi piaceva affatto guardarli, mi piaceva guardare con lui nella stessa direzione, seduti fianco a fianco.
«Comincia Daltanious!» mi avvisava mio fratello e io accorrevo. Anche mamma spesso si associava al nostro entusiasmo e cantavamo la sigla.
Daltanious era il robot del futuro: difendeva l’umanità dall’attacco dei nemici. Per quanto seguissi ogni puntata non riuscivo ad afferrare nei dettagli la trama né a imparare quei nomi giapponesi.
Capivo soltanto che Daltanious era
coraggioso (aveva un leone sul petto!) e che non era fatto tutto d’un pezzo: era un
mega-robot composto da tre mini-robot diversi. Nessuno dei tre componenti da solo sarebbe riuscito a vincere, ma ogni volta che c’era da combattere avveniva a mezz’aria una danza di ingranaggi: le tre parti si trasformavano e si incastravano, diventando imbattibili. Non eravamo robot, ma la storia di Daltanious era un po’ la storia della nostra famiglia e un po’ lo è ancora.
«Aggancio totale» urlava uno dei piloti durante la manovra.
D’istinto iniziai a dirlo anch’io, ma sottovoce, come una formula magica.
Diventò presto un nostro modo di dire quando c’era qualche problema e avvertivamo che stare insieme era la nostra
forza. «Facciamo l’aggancio totale?».
Era più di un abbraccio, era avere un leone sul petto, era la consapevolezza che uniti sarebbe andato tutto bene. Uniti, qualunque nemico era più debole.
«Aggancio totale» resta tra le espressioni del mio lessico familiare, anche se da
oltre vent’anni non lo diciamo.
Forse un giorno, d’istinto, mi capiterà di ripeterlo dentro un abbraccio diverso. Chi può dirlo? Le parole che fanno casa a volte riaffiorano all’improvviso quando si credevano sepolte.
Forse, invece, quell’espressione resterà confinata a quell’epoca e all’indirizzo di quelle braccia. Le parole che fanno una casa non è detto che si possano sempre portare in un’altra casa, a volte vanno lasciate in fase di trasloco ed è giusto così.
I mobili su misura non sempre si possono riadattare: ci sono pareti nuove da arredare con un mobilio nuovo, con un linguaggio nuovo.
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