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Questa è la storia di Maurizio, il figlio di mamma Iole, casalinga, e di papà Ugo,
impiegato al Ministero dei Trasporti.
È la storia di un figlio unico. Unico perché senza fratelli, ma anche unico perché speciale.
Cosa ti faceva paura da bambino?
«La solitudine dei piedi».
A sei anni, sdraiato sul letto, li guarda e gli sembrano troppo soli laggiù in fondo al corpo.
Per quanto non siano ancora stati inventati i conservanti, non è di certo quella un’epoca in cui si segue un’alimentazione sana: si saltano i pasti, non esiste il metabolismo e nemmeno i dietologi. Maurizio ha la tendenza a mettere su peso e Iole, per far sì che il figlio non se ne faccia un cruccio, gli ripete «Grassezza mezza bellezza».
In casa si guarda spesso al cielo e si commenta il clima: «Ha messo a freddo», «Mo viene buio», «Mi sa che, gira gira, viene a piovere».
Guardare al cielo non serve soltanto a controllare la temperatura. Sopra le teste rombano gli aerei tedeschi.
«Questi hanno già sganciato» dice Ugo ascoltando attentamente i motori: fanno un rumore diverso quando sono ancora carichi di bombe. E, seppur nel dispiacere, è un sollievo quella frase paterna. Gran parte dell’infanzia di Maurizio si svolge di corsa verso il rifugio antiaereo sotto casa a via Livorno, a Roma. Un giorno, incontrandolo, un soldato tedesco in divisa si intenerisce e gli allunga un pacchetto di riso. Quel bambino lo prende e scoppia a piangere: quando si vive nel terrore del nemico, anche un gesto gentile può spaventare.
Contro la guerra ci sarà la Resistenza dei partigiani. C’è anche una resistenza civile quotidiana, fatta di piccoli sorrisi che si sforzano di non arretrare.
«Mio padre faceva grandi scherzi. A quei tempi gli uomini indossavano il cappello. Quando avevamo visite, c’erano i vari cappelli degli ospiti appesi alla cappelliera. Da lì mio padre ne prendeva uno, lo indossava e si metteva d’accordo con un complice. Poi, davanti agli altri, il complice fingeva di dargli una brutta notizia. E mio padre “Ma davvero?!” esclamava, portandosi le mani alla testa, schiacciando totalmente il cappello…
All’epoca le monache suonavano per chiedere i soldi, mio padre apriva la porta, diceva “Dio ci provvede” e richiudeva…». Non era credente: era difficile esserlo soprattutto in quegli anni in cui Dio, più che onnipresente, pareva assente ingiustificato. «Mio padre diceva anche una cosa, ma non so se si può scrivere…» mi confida Maurizio.
«Si può scrivere» gli assicuro prima ancora di sentirla, perché ascoltare un racconto, quando si sente che è vero, è più forte di qualsiasi ragionamento in termini di opportuno/non opportuno. E lui continua: «Quando passava una donna bellissima, mio padre diceva: “Meglio quella nuda che io vestito da cardinale”.»
Come a tutti i bambini, anche a quel bambino gli adulti domandano cosa vuole fare da grande.
«Il carbonaio» risponde.
«Non l’ingegnere?» cerca di stimolarlo la nonna.
No, proprio il carbonaio. «Ingegnere ora è una parola come un’altra, ma allora era una parola desueta. Erano molto più frequenti i carbonai: erano quelli che trasportavano sulle spalle il carbone, così come c’era chi trasportava sulle spalle il ghiaccio per la ghiacciaia… Ecco, anche “ghiacciaia” per me è una delle parole che fanno casa».
Maurizio non farà il carbonaio né l’ingegnere. La sua vocazione si rivela prestissimo un’altra. Ha sette, otto anni, quando con un portasapone rovesciato improvvisa un microfono e legge una commedia di Goldoni. In quegli anni i bambini giocano facendo finta che le lattine siano i protagonisti del ciclismo: chi fa Coppi, chi Bartali. Anche Maurizio gioca, ma alla fine del gioco fa quello che nessun altro bambino fa: scrive su un foglio protocollo la cronaca della finta tappa del finto Giro d’Italia.
Ha diciassette anni quando il padre Ugo muore; ne ha trentasette quando anche la madre Iole muore. Questa, però, non è una storia triste perché quel bambino ha una fortuna: se stesso.
La storia di Maurizio Costanzo farà la storia della radio, del giornalismo, della televisione.
Esistono persone che nascono con un dono, una sensibilità: la capacità di riuscire a vedere prima e più in là degli altri. Costanzo questa capacità ce l’ha. Ce l’ha quando, a vent’anni pubblica con l’editore Semeraro il libro Ho ucciso la morte, nel quale affronta il tema dell’eutanasia, argomento pressoché sconosciuto alla fine degli anni Cinquanta, sul quale tuttora in Italia non si riesce a legiferare. Ce l’ha quando inventa un talk show nel quale, in tempi insospettabili, si discute di questioni sociali che ancora fatichiamo ad affrontare: parità di genere, mafia, discriminazioni a ogni livello, disabilità, malattia, follia. È lui a tirare fuori la poetessa Alda Merini dall’oblio del manicomio, a restituirle lo spazio e la luce che le spetta e le appartiene.
La stessa lungimiranza ce l’ha quando si dichiara profondamente animalista e anticaccia e lancia campagne in difesa degli animali.
Tutto quello che il senso comune dava per scontato e consolidato, Maurizio Costanzo ci ha abituato a guardarlo con occhi diversi. Su quel palco sono stati seduti fianco a fianco politici, prostitute, scrittori, comici, persone del pubblico ed è sempre stato imprevedibile capire da chi sarebbero venute fuori le riflessioni più interessanti.
Nella prontezza con cui Costanzo avvicina il microfono all’intervistato e in quella con cui a volte lo toglie ho sempre letto un doppio messaggio: “ascolta tutti… fino a un certo punto”.
Quando un ascolto non merita, bisogna passare oltre; per manierismo non si può restare a sentire il nulla.
Ritrovo quel suo stesso spirito risolutivo quando gli chiedo «Il governo sta valutando se dare il diritto di voto ai sedicenni. Tu glielo daresti?».
«Sì, piuttosto lo toglierei ad altri. Conosco quarantenni stupidi e sedicenni intelligenti. Guarda Greta Thunberg. Possono prenderla in giro quanto vogliono, ma è fortissima e dice cose giuste.»
Mi accorgo che il tempo concesso per l’intervista sta per scadere. Mi sono talmente persa nei suoi ricordi che ho ancora tante domande da fargli e devo sbrigarmi se voglio sapere cosa vede nella sua lungimiranza
oggi.
Di cosa ha bisogno il nostro Paese?
«Di governanti stabili, capaci e che sappiano far di conto».
Sorrido per quel “far di conto”. Un tempo si diceva che la scuola serviva a questo: imparare a leggere, scrivere e far di conto. La capacità di “far di conto” l’abbiamo persa, è vero. Mi chiedo se non stiamo perdendo anche quella di leggere a scrivere.
Cosa ne pensi del mondo della cultura oggi?
«In Italia non si vende un libro. Questa è una cosa gravissima e lo stesso governo dovrebbe porsela come problema.»
Qual è il primo libro che hai letto?
«Il piccolo alpino di Salvator Gotta»
La tua favola preferita?
«Biancaneve. Per via dei nani. Non essendo io un corazziere, mi hanno sempre fatto simpatia…».
Quali sono, Maurizio, le parole che salveresti?
«Amore, vita, solidarietà, amicizia.»
Se dovessi salvarne una soltanto?
«Amore, perché per me include anche le
altre.»
Qual è secondo te la parola più abusata?
«Amore» ripete. «Viene abusata ogni volta che qualcuno finge di amare. Io sopporto poco le doppiezze».
Come si fa a capire se qualcuno finge di amare?
«Te ne accorgi col tempo» mi spiega.
Sono d’accordo anch’io: il tempo è maestro nel far di conto.
«Purtroppo ci vuole il tempo» continua «Te ne accorgi se sei in un momento di tuo bisogno – che può essere anche un momento di solitudine – e quella persona c’è o non c’è»
Se per l’Amleto di Shakespeare essere o non essere era il dilemma, per Costanzo esserci o non esserci è la prova del nove.
Al di là della professione, qual è la cosa di cui umanamente vai più fiero?
«Aver sempre cercato di aiutare, quando me ne rendevo conto, chi aveva bisogno di aiuto»
Sei felice?
«Sai, della felicità te ne accorgi quando non ce l’hai: ti accorgi che l’hai avuta. Ma quando ce l’hai te ne accorgi meno. Io non dico “Ah, come sono felice!”. Trovo che sia più importante e da inseguire la serenità»
C’è qualcosa che non rifaresti?
«Devo essere sincero: penso che anche gli errori siano molto utili a crescere e a vivere quindi rifarei tutto, anche gli errori.»
Sei stato più amato o invidiato?
«Spero amato. Ma forse invidiato.»
Guardo quest’uomo e penso a com’è cieca l’invidia, a come l’invidia non consideri tutto un percorso di vita, ma si limiti a fissare ciò che illuminano i riflettori e nient’altro.
Guardo quest’uomo e penso che spesso debba essersi sentito solo anche in mezzo a una folla, perché c’è qualcosa in lui che è avanti, cammina avanti agli altri.
L’intervista è finita.
Spengo il registratore.
È il tardo pomeriggio di giovedì tre ottobre. Fuori dal suo studio, in strada, sentiamo alzarsi un po’ di vento e tutt’e due guardiamo alla finestra. Non ho un soprabito, penso, per fortuna non ho parcheggiato lontano.
«Ha messo a freddo» dice Maurizio, come avrebbero detto mamma Iole e papà Ugo.
E mi accorgo che quella frase gli fa compagnia più di tante altre compagnie.
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