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“Stranghijare”

“Alzati, è tardi, devi andare a scuola”.

Aveva questo suono la sveglia di casa. A volte quella frase la sentivo ancora prima che mia madre la pronunciasse. Il passaggio dal mondo dei sogni a quello reale era sempre traumatico per me. La notte accadevano meraviglie, viaggi, ritorni, tutto si rivelava possibile. Le risposte che di giorno avevo cercato, di notte mi arrivavano: metafore che, al risveglio, dovevo solo interpretare per cogliere quello che del reale intorno mi era sfuggito. “Alzati” di nuovo.

Le persiane venivano spalancate. I capelli arruffati mi difendevano gli occhi dalla luce del sole. Dovevo andare. Poi finalmente arrivava la domenica: potevo restare a letto fino a tardi e i sogni interpretarli per ore. Nel tepore delle coperte, della notte e dell’immaginazione, mi giravo e rigiravo e tutto questo dalle mie parti, nelle Serre calabresi, si diceva con un solo verbo: stranghijavo. Era un’espressione rimasta dal greco stranghizo, “spremo, filtro”.

Attraverso la porta aperta della mia stanza, intuivo l’ora dai suoni della tv accesa e dall’odore di cucinato. Anche del ragù che da almeno tre ore cuoceva nel tegame di terracotta, venendo girato di tanto in tanto, amalgamandosi con il sugo e con il soffritto, si diceva che stranghijava. Capivo che il tempo era scaduto.

Mi ostinavo comunque a rimanere a letto ancora un po’, pilotando qualche sogno, acchiappando ancora un’immagine che mi rivelasse qualche verità. La voce ferma di mia madre dalla cucina urlava “È pronto!”. Mi sedevo svogliatamente a tavola, ancora in pigiama. Guardavo il piatto di pasta al ragù. Mi sembrava che anche lui avrebbe preferito continuare a mantecare e mantecare per sentirsi alla fine denso e consistente, come avrei voluto sentirmi io.


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