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L’ospedale Borgo Trento di Verona

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Il batterio-killer che in due anni ha ucciso quattro piccoli ricoverati nella Terapia intensiva neonatale ospedale di Verona, era annidato in un rubinetto. Una prima verità emerge nel caso delle infezioni al Borgo Trento, in una struttura considerata d’eccellenza nella sanità del Veneto che ogni anno impiega più di 10 miliardi di euro.

LA DENUNCIA

La notizia, anticipata da un giornale locale, ha subito suscitato forti reazioni. A cominciare dalla mamma di una delle bambine infettate, Francesca Frezza. Che ha dichiarato: «È stata una strage di neonati che si sarebbe dovuta evitare, perché le infezioni sono cominciate nel 2018 e i reparti sono stati chiusi solo a metà giugno, dopo che io avevo manifestato davanti agli ingressi. Se li avessero chiusi prima, la mia Nina sarebbe viva».

La signora Frezza si è poi recata con il fratello, l’avvocato Matteo, ancora una volta davanti al nosocomio scaligero, chiedendo che vengano rimossi dai loro posti i responsabili dei reparti dove si verificarono i contagi e anche i vertici della direzione sanitaria.

«Non è possibile che i reparti riaprano con gli stessi medici al loro posto», hanno dichiarato.

IL FOCOLAIO

Il focolaio di Citrobacter si trovava in un lavandino utilizzato dal personale della Terapia intensiva neonatale per prendere l’acqua da dare ai neonati. In due anni ha causato quattro vittime: Leonardo a fine 2018, Nina nel novembre 2019, Tommaso a marzo di quest’anno e Alice il 16 agosto scorso. Ma l’elenco è drammaticamente completato da 9 cerebrolesi e da 96 piccoli colpiti dal batterio.

LA RELAZIONE DELLA COMMISSIONE

La relazione è stata consegnata in Regione Veneto dal professor Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’università di Padova e coordinatore della commissione di verifica nominata il 17 giugno dal direttore generale della Sanità del Veneto, Domenico Mantoan. Il giorno precedente erano stati chiusi i reparti di Ostetricia, di terapia intensiva pediatrica e terapia intensiva neonatale.

L’organo ispettivo è composto dai professori Elio Castagnola, primario degli Infettivi dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, Gian Maria Rossolini, docente di Microbiologia dell’ateneo di Firenze, e Pierlugi Viale, ordinario di Malattie infettive a Bologna, dal direttore di Pediatria e Neonatologia dell’usl Berica, Massimo Bellettato, e dai dirigenti di Azienda Zero Mario Saia ed Elena Narne.

La relazione parla di una “colonia” di batteri nel lavandino e sarà inviata anche alla Procura della Repubblica di Verona che ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati.

Il Citrobacter sarebbe arrivato dall’esterno, forse a causa del mancato o parziale rispetto delle misure d’igiene imposte al personale nei reparti ad alto rischio. Ovvero: lavaggio frequente delle mani, cambio dei guanti, utilizzo di sovrascarpe, sovracamici, calzari e mascherina. La conclusione è frutto del controllo sulle cartelle cliniche e procedure seguite, sui protocolli, sugli ambienti e impianti. Ma anche delle audizioni di medici, infermieri, operatori sociosanitari.

Nella relazione si afferma anche che l’ospedale di Verona non avrebbe informato le strutture regionali sanitarie e nemmeno quelle ministeriali delle infezioni da Citrobacter, se non a giugno. L’epidemia inoltre, sarebbe stata sottovalutata e sottostimata. Nonostante i numeri drammatici, l’unità di crisi si sarebbe attivata con ritardo.

LA BATTAGLIA DEI FAMILIARI

La mamma di Nina non si era mai arresa. Mentre la piccola era in vita aveva ottenuto di trasferirla a Genova, perché in quell’ospedale le sarebbero state garantite e cure palliative, visto che soffriva terribilmente. La sua denuncia è anche un atto d’accusa- al di là dell’infezione – contro l’atteggiamento che alcuni medici avrebbero tenuto nei suoi confronti. «Sono arrivati al punto di dirmi che avrei potuta dare la mia piccola in adozione!».

Il 12 giugno scorso il direttore generale Francesco Cobello aveva il Punto nascite (il più grande del Veneto), la Terapia intensiva neonatale e la Terapia intensiva pediatrica. Il giorno dopo aveva nominato una commissione di esperti. La Regione ne ha aggiunta un’altra di esterni.

Nel frattempo durante l’estate è stata avviata la bonifica complessiva dei locali, con particolare attenzione all’aria, alle condutture d’acqua e alla situazione ambientale. Bonificati i filtri dell’aria, gli impianti di condizionamento e sanificazione. Poi è stata effettuata l’iperclorazione della rete idrica, controllando la carica batterica e quella del cloro nell’acqua. I locali sono stati sanificati con il perossido di idrogeno. E’ per questo che è stato riaperto ieri il Punto nascite per i parti dalla 34ª settimana, cioè non a rischio. Entro un mese è prevista anche la riapertura degli altri due reparti.

LA FORZA DI “MAMMA CORAGGIO”

Davanti all’ingresso dell’ospedale di Verona, mentre chiedeva le dimissioni dei responsabili dei reparti, Francesca Frezza, “mamma coraggio” ha ribadito: «Questo è un massacro, una strage di innocenti che si sarebbe dovuto evitare. Ciò che è accaduto è gravissimo. L’ospedale di Verona andava chiuso subito, per sanificarlo e trovare l’origine del Citrobacter. Le infezioni ci sono in tutti gli ospedali, ma si devono prendere provvedimenti, quando avvengono. Invece non si è fatto niente. Dal 2018 si è aspettato fino al 12 giugno scorso prima di chiudere i reparti».

Le stesse parole sono state messe a verbale qualche giorno fa, durante un interrogatorio in Procura. «Alla fine la decisione è stata presa perché io ho chiesto la chiusura. Sono andata davanti alle porte dicendo che non mi sarei mossa finché non prendevano provvedimenti».

C’è un’inchiesta, in che cosa spera? «Ho fiducia nella magistratura, che riusciranno ad accertare cosa è accaduto e quali sono le responsabilità. Dopo il secondo caso avrebbero dovuto chiudere tutto. Chiedo: perché non l’hanno fatto? Intanto mia figlia ha sofferto in modo indicibile. I medici l’hanno intubata, volevano operarla, non hanno mai usato cure compassionevoli, nessuna terapia del dolore. La piccola era al limite delle forze quando, finalmente, sono riuscita a portarla via, al Gaslini di Genova. Ha passato i suoi ultimi giorni in un hospice, serena. Almeno se n’è andata senza urlare di dolore».


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