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L'ex ministro Girolamo Sirchia

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Bruciore agli occhi, polmoni ingolfati di fumo e colpi di tosse persistenti. Era questa la condizione cui spesso dovevano sottostare i non fumatori italiani in ristoranti, discoteche e bar prima del 10 gennaio 2005.

Quella data, che segna l’entrata in vigore della Legge Sirchia sul divieto di fumo nei locali pubblici chiusi, rappresentò uno spartiacque. A quindici anni di distanza, l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ne rileva gli effetti, ossia un milione di fumatori in meno (oggi sono 11,6 milioni) e la crescita della consapevolezza rispetto ai danni dell’uso del tabacco.

Quest’ultimo aspetto è testimoniato dall’aumento delle telefonate dei cittadini per smettere di fumare al telefono verde Fumo dell’Iss 800.554.088, passando da 2.600 contatti annui nel 2005 a 11.100 nel 2019.

I risultati palesano l’efficacia della misura, ma restano tuttavia delle zone d’ombra, come spiega in un’intervista al Quotidiano del Sud l’allora ministro della Salute e proponente della Legge che porta il suo nome, Girolamo Sirchia.

Prof. Sirchia, come maturò la linea della fermezza?
«Dalla consapevolezza che il fumo rappresentava una grave minaccia alla salute pubblica, con circa 70mila morti premature l’anno e trenta volte tanto di malati cronici, con un costo sanitario di 6,5 miliardi annui. Il fumo passivo era responsabile di un decimo di tali danni ed era una violazione del diritto dei non fumatori a respirare aria pulita».

La sua legge incontrò molte resistenze…
«Incontrammo una forte opposizione da parte delle associazioni che raggruppano gli esercenti, nonché dei gestori dei locali pubblici. Del resto sul tema esistono sensibilità diverse, ma c’è anche un grande giro d’affari mondiale di circa 736 miliardi di dollari».

Resistenze ci furono anche in Parlamento e tra i suoi stessi colleghi di governo?
«Altroché! Diversi esponenti del governo erano contrari. Il più acceso era l’allora ministro della Difesa Antonio Martino, ricordo fortemente negativo anche il parere dell’ex vicepremier Gianfranco Fini. Ma alla fine, a seguito di un fitto lavoro, riuscimmo a portare a casa quella legge».

Quindici anni dopo, è soddisfatto dei risultati conseguiti?
«La legge ha funzionato e funziona ancora, ma appaiono diverse incrinature».

A cosa fa riferimento?
«Dopo i primi anni in cui si è registrato un calo importante della percentuale di fumatori, si è allentata l’azione di contrasto producendo così una leggera ripresa. Da qualche anno il livello si è stabilizzato poco sopra il 20 per cento, nonostante l’andamento lasciava presagire che si potesse scendere oltre quella cifra, come accaduto in altri Paesi che hanno adottato misure simili alla nostra accompagnandole però ad iniziative di contrasto continue e nel lungo periodo».

Suggerimenti al governo per rilanciare una politica di contrasto al fumo?
«Inizierei con pochi provvedimenti a costi molto bassi, come intensificare i controlli di Nas e Asl e comminare ai trasgressori le sanzioni previste, applicare le leggi esistenti sulla dispersione nell’ambiente dei mozziconi e sul fumo in presenza di bambini e donne incinte, sostenere i servizi di cessazione del fumo in ogni incontro medico-paziente».

Oggi si discute molto della possibilità di liberalizzare il consumo di cannabis, non solo per fini terapeutici ma anche ludici. Cosa ne pensa?
«Assolutamente contrario. È una proposta assurda, nociva alla salute dei cittadini italiani, che si spiega con gli interessi di pochi gruppi a diversificare il mercato. Abbiamo già il gioco d’azzardo, l’alcol, la vendita illegale di droga, ci manca solo che lo Stato si metta a commerciare la cannabis e siamo rovinati».


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