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Gigi Proietti, il grande attore morto lo scorso 2 novembre

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Intervista realizzata nel luglio del 2019

ROMA – «Il Globe è il mio fiore all’occhiello», si emoziona Gigi Proietti che quest’anno festeggia 16 anni di direzione artistica del Silvano Toti Globe Theatre. Un cerchio di legno nel cuore di Villa Borghese. La sua creatura. Un luogo che tutte le estati diventa un viaggio nel tempo, dedicato al grande repertorio shakespeariano ed elisabettiano. Storie di passioni, gelosie, d’amore e morte, di virtù e vizi umani di allora e di oggi. Sul palco gli attori shakespeariani e il Maestro Proietti, l’istrione papà. Interprete poliedrico, instancabile e dalla forte presenza scenica. Uno dei primi a fare un teatro d’autore e d’attore che arrivasse a molti.

Voce profonda, sorriso accattivante, l’artista, classe 1940, è talento puro, da quando magro e alto debuttò nell’Arlecchino e con testi di Flaiano, Arbasino e Vollaro. Preciso, quasi in modo ossessivo. Sotto i riflettori parla con il corpo, gli occhi e tutto se stesso. E con la sua arte, sospesa tra il colto e il popolare, porta in scena da Brecht a Moravia, dalle straordinarie opere del genio di William Shakespeare al Maresciallo Rocca, passando per l’incallito scommettitore Mandrake in Febbre da Cavallo. Una carriera unica, da one-man-show, divisa tra teatro, cinema, televisione, doppiaggio, regia, canto e insegnamento. Lo abbiamo incontrato in una calda mattinata al Globe per farci raccontare l’amore per il suo gioiellino popolare.

«È una delle realtà più interessanti. Ogni volta che mi guardo intorno mi sembra quasi di sognare. E mi spinge a voler continuare».

Come nacque il progetto del Silvano Toti Globe Theatre?

«Nel 2003, in occasione del centenario della donazione della villa da parte della famiglia Borghese al Comune di Roma, l’amministrazione capitolina chiese, a me e ad altri artisti, di fare uno spettacolo qui a Villa Borghese. In quell’occasione mi venne in mente di fare quello che accade in tante altre capitali estere: a New York, ad esempio, c’è la manifestazione “Shakespeare in the Park”, dove tutte le estati vengono rappresentate opere di Shakespeare».

La sua emozione è tangibile, un traguardo culturale inaspettato?

«Sono molto emozionato, pensando che questo teatro esiste da 16 anni e prima non c’era nulla. Siamo riusciti ad andare avanti insistendo, e non era semplice, spinti dall’entusiasmo siamo arrivati a questo traguardo. Sarà un anno di festa, riproponendo i nostri più grandi successi amati da critica e pubblico. Shakespeare e il teatro elisabettiano non hanno mai fine. Siamo riusciti a fare una media di cinque grandi produzioni all’anno, più altri spettacoli con caratteristiche didattiche e di informazione».

Quale è stato il compito del Globe in tutti questi anni?

«Far conoscere i grandi classici, per ora shakespeariani, ad un pubblico che sente parlare di Otello, ma sa solo che è geloso e non conosce il dramma raccontato nei versi del drammaturgo. Anche se poi facciamo anche noi ricerca con spettacoli di altri tipi, divaricanti dal filone principale, nel pomeriggio o programmandoli il lunedì».

Un amore assoluto per il teatro di Shakespeare, un autore eterno.

«Shakespeare ha avuto stagioni alte e basse. Dall’800 in poi si è incominciato a capire la sua grandezza, un gigante per la coscienza degli uomini. Basti pensare che in Europa, prima di lui, si facevano sacre rappresentazioni, con Shakespeare c’è stato un salto pazzesco. Ha scandagliato e anticipato la psicanalisi. Ha scavato nell’inconscio».

Quale è l’indicazione artistica del suo Globe?

«Fare un teatro d’attore, e ci stiamo riuscendo. Evidentemente la scelta iniziale è stata premiata. Credo che da quando portiamo in scena Shakespeare, che non si faceva tanto spesso nei teatri, le produzioni in giro sono aumentate. Non dico che sia merito nostro però forse in qualche modo abbiamo contribuito al suo rilancio».

Molto rumore per nulla, una nuova edizione de La bisbetica domata, La tempesta con Ugo Pagliai, Sogno di una notte di mezza estate, e poi Merchant of Venice in lingua originale. Cartelloni di altissimo livello eppure non è uno spazio d’elite ma per tutti.

«Sono stupefatto di essere arrivato con un trend di crescita, fino a quasi 68 mila presenze nella scorsa stagione. È pazzesco. Ed è sempre pieno di giovani che si interessano al teatro elisabettiano, non solo alle commedie ma anche alle tragedie. Li vedi seduti per terra, sui cuscini attentissimi. Sembrava quasi che mancasse questo luogo, come se i cittadini se lo aspettassero. Questo mi rende molto orgoglioso».

Fra le novità anche un concorso di corti e il gemellaggio del Globe con il Teatro Flora di Penna San Giovanni, piccolo teatro barocco e unico superstite nella provincia di Macerata dopo il terremoto del 2016.

«Su otto teatri, sette sono stati distrutti dal sisma ed è rimasto in piedi solo un piccolo straordinario teatrino tutto in legno, come il Globe. Faremo uno scambio, li ospiteremo qui nelle matinée dedicate alle scuole e manderemo due delle produzioni di Politeama per la stagione del Globe: Sonetti d’amore e Playing Shakespeare. Il teatro sottolinea ancora di più quella sua vocazione pubblica. Ci auguriamo una stretta collaborazione con l’amministrazione per quella koinè che desideriamo possa cominciare ad esserci».

Tra i segreti del Globe c’è anche il suo essere meno “ingessato” rispetto ad altri luoghi di cultura.

«Credo di sì. È un teatro popolare non solo nello spettacolo ma anche nel luogo, nel suo approccio, come si presenta e dal tipo di accoglienza. Poi, quando all’interno hai un pubblico che comincia a seguire la logica delle stagioni, si possono provare anche delle azioni più ardite. E credo che dalla prossima stagione per noi ci saranno delle novità, anche dal punto di vista formale. Ma è un po’ presto per parlarne».

A me gli occhi please, Globe Theatre e Febbre da Cavallo sono tra le sue maggiori soddisfazioni professionali?

«Si, ci metto anche lo spettacolo su Kean, il film con Altman e forse qualcos’altro, di cose ne ho fatte. Ma comunque Mandrake è imbattibile, è il personaggio più popolare a cui io sia legato, per il quale il pubblico continuamente per strada mi ripete battute. Alcuni mi ci chiamano proprio, “a Mandrà…”. Credo che in pochissimi non l’abbiano visto. Sanno tutte le battute a memoria, non c’è generazione che non lo conosca».


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