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Alcuni infermieri impegnati nell'emergenza coronavirus

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Quella al coronavirus si è trasformata in una vera e propria battaglia e sono davvero tante le immagini che circolano in rete che raccontano la trincea in cui essa si sta consumando e delle ferite riportate da chi questa guerra la sta combattendo in prima linea. Volti percossi dalle impronte delle mascherine, dalla mole di lavoro, da turni fuori controllo, bardati come dei veri e propri soldati in un conflitto aperto, in cui anche il tuo compagno in lotta può trasformarsi in un “nemico”. Molti tra noi giovani, freschi di studi universitari, sono stati chiamati ad essere protagonisti di questa battaglia. Protagonista infatti significa etimologicamente “colui che combatte in prima linea”, pertanto non posso che riferirmi a quei miei coetanei, medici, infermieri, operatori socio-sanitari, che si sono trovati a combattere, alla prima esperienza, una guerra più grande di loro. Proprio per queste ragione abbiamo deciso di ascoltare la testimonianza di una giovane ragazza cosentina, Francesca Apa, classe 1995, infermiera di area critica impegnata nell’unità operativa di rianimazione e terapia intensiva presso l’Istituto Nazionale Ricovero e Cura Anziani di Ancona.

Com’è cominciata la tua esperienza presso l’INRCA di Ancona?

Il 13 Marzo di quest’anno ho cominciato a lavorare presso l’INRCA, sono stata chiamata d’urgenza a seguito del repentino scorrimento della graduatoria relativa all’avviso pubblico indetto dalla stessa Azienda Ospedaliera qualche mese prima. Il concorso si è svolto il 26 Febbraio, quando il Covid-19 stava già cominciando a diffondersi in Italia. Ho preso servizio presso l’unità operativa di geriatria della medesima struttura ed essendo specializzata nell’area critica ho richiesto sin da subito di essere trasferita nei reparti allestiti dalla struttura ospedaliera in via straordinaria per gestire l’emergenza sanitaria.

Come mai questa scelta? Non ti senti molto più esposta a lavorare in prima persona e con poca esperienza in una situazione del genere?

Anzitutto io ho fatto un percorso di studi interamente dedicato a lavorare in circostanze come questa: è come boxare per molto tempo con un sacco per poi trovarsi l’avversario in carne ed ossa e non poterlo affrontare, non mi sembrava giusto verso me stessa. In secondo luogo, non è proprio così. Mi spiego meglio: se lavori in un reparto Covid-19 hai a disposizione tutta quella gamma di presidi di protezione che se usati correttamente ti consentono di sentirti molto più sicura e protetta che non in altri reparti. Infatti, quando ho preso servizio in geriatria lavoravamo soltanto con i guanti e la mascherina chirurgica. Ciò significa che molti di noi si sono ammalati soprattutto perché, paradossalmente, non eravamo sufficientemente protetti. Eppure siamo in un ospedale!

Quanti dei tuoi colleghi hanno contratto il virus nel corso di questa tua esperienza?

Sinceramente ho perso il conto, anche perché molti o non li conoscevo, o li conoscevo a malapena. Mi sono trovata a lavorare sempre con persone diverse e questo ci ha impedito anche di formare quell’equipe costante ad ogni turno che nelle unità critiche è fondamentale per creare la sinergia necessaria per affrontare situazioni di emergenza che richiedono quella prontezza d’intervento che solo un consolidato gioco di squadra può garantirti. Arrivavo in reparto e vedevo che molti colleghi erano depennati sulla bacheca dei turni, altri lo comunicavano direttamente nei gruppi WhatsApp che utilizziamo per le comunicazioni di lavoro, altri ancora li ho visti prima in divisa e qualche giorno dopo ho saputo che erano stati ricoverati, fortunatamente non in rianimazione.

Cosa accade quando un operatore sanitario contrae il virus?

Anche qui devo essere sincera, fin quando sei asintomatico anche se sei entrato in contatto con pazienti o colleghi che l’azienda sanitaria ha accertato abbiano contratto il virus, non vieni sottoposto a tampone nell’immediato. Questo è un rischio, perché ci espone costantemente al pericolo di contagio e instilla anche diffidenza e paura reciproca tra noi, e questo non è un bene affinché si possa lavorare serenamente. Oggi però ci hanno comunicato che probabilmente effettueranno dei tamponi preventivi a tutti noi.

E tu? Dove finisce l’infermiere e comincia l’essere umano?

Quando lavoro non ci penso affatto, ma quando torno a casa mi sento ancora tra i fili e i monitor della rianimazione, mi guardo allo specchio e vedo i segni della mascherina. Sono sempre lì. Poi penso a qualche giorno fa, quando abbiamo dimesso tre pazienti precedentemente intubati. Ricordo i loro sorrisi nelle videochiamate ai familiari. Sono quelli i momenti per cui lavoro.


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