Marisa Laurito nella sua veste di fotografa
5 minuti per la letturaConduttrice, cantante, attrice, pittrice, scultrice, fotografa. Provare a definire Marisa Laurito e l’infinita varietà di talenti che è in grado di esprimere attraverso il suo eclettismo, non è impresa facile.
«Sono un’artista in resistenza che dà voce alla qualità, alla disciplina, come Eduardo De Filippo e mio padre mi hanno insegnato da giovane: valori purtroppo molto sacrificati soprattutto oggi, in una fase storica nella quale fare una cosa che sia quasi perfetta è molto difficile» dice l’artista partenopea che domani, al Complesso monumentale di San Domenico Maggiore di Napoli inaugura la sua mostra “Transavantgarbage. Terra dei Fuochi e di Nessuno”.
Un percorso espositivo che si snoda attraverso venti scatti fotografici e tre istallazioni, che raccontano un mondo contraddittorio e multiforme, tra desiderio di denuncia e necessità di riflessione.
Lei è un’artista a tutto tondo: mi spiega come fa a fare tutto?
«Ho la fortuna di fare un lavoro che amo. Ho una spinta passionale che mi porta a lavorare fino a tarda notte e che mi dà la forza e il desiderio di raccontare. La passione per l’arte è iniziata da giovanissima: avevo 17 anni, vendevo i quadri che dipingevo per prendere lezioni di recitazione. Poi un giorno una critica d’arte mi chiese di chi fossero quelle opere. Risposi che erano di un’artista araba ma la bugia non resse a lungo, perché dopo due volte scoprì che ero io e mi convinse a fare una mostra. E così, per gioco, è iniziato il mio secondo lavoro, che oggi è pentato il primo».
Parliamo del suo “primo” lavoro, attraverso il quale è entrata nelle case di milioni di persone: le manca la tv di quegli anni?
«Moltissimo: non solo mi manca il gruppo, ma soprattutto la tv ironica, pertinente, che faceva ridere in maniera intelligente. Non riuscirei mai a fare un altro tipo di televisione, mi sembrerebbe di tradire il pubblico».
Che tipo di altra televisione?
«Ad esempio i reality. Mi sono arrivate perse proposte, le ho rifiutate tutte, a qualunque titolo: che fossi ospite, conduttrice, opinionista. Si tratta di onestà intellettuale: non potrei mai tradire il mio pubblico attraverso cattivi esempi. Quando ho iniziato a fare il mio lavoro sapevo che dovevo imparare qualcosa: a recitare bene, parlare bene, condurre bene, dovevo fare qualcosa di professionalmente perfetto. Questa consapevolezza ha sempre accompagnato il mio percorso e continua a farlo anche oggi. I reality, al contrario, nascondono il nulla, giocano sui caratteri delle persone dando risalto al peggio e questo proprio non mi piace».
Se le proponessero di riportare in tv una trasmissione come “Quelli della notte”, la rifarebbe? Avrebbe un senso riproporla oggi?
«La rifarei subito. Ma, devo dire, ci sono anche altri programmi che funzionano. Il primo che mi viene in mente è quello condotto da Fabio Fazio, un programma elegante e di livello, dove si parla, si racconta e si ride senza volgarità. Ma ce ne sono anche altri».
Secondo lei c’è abbastanza Mezzogiorno in tv?
«Dipende: credo che oggi molto di ciò che passa in tv sia in qualche modo legato alla politica, a chi è al Governo, comprese le appartenenze regionali. C’è poi il teatro, che è ancora avulso da queste dinamiche e che al contrario, non so ancora per quanto, può portare in scena chi e come vuole. E, quanto a teatri, basti pensare che a Napoli ce ne sono 54. Unica città al mondo, delle sue dimensioni ovviamente, con una condensazione di artisti e attori da far invidia: in Italia, la maggior parte degli attori è napoletana».
Nella mostra, lei racconta e denuncia un problema nel quale spesso Napoli viene identificata: la Terra dei Fuochi. Come è nata l’idea?
«Avevo partecipato a un docufilm proprio sulla Terra dei Fuochi, dal titolo “Il segreto di Pulcinella”. Durante le presentazioni sono venuta a contatto con tanti attivisti e ho capito che questo è un problema del Paese intero. Su venti regioni, diciannove sono coinvolte e sconvolte dall’irregolare smaltimento dei rifiuti chimici, industriali, nucleari, altamente pericolosi. Ci sono posti dove la gente muore: ho fotografato una fattoria che sta proprio sopra all’Ilva, costretta ad abbattere cinquecento capi di bestiame, perché il latte che producevano, e dunque anche i derivati come i formaggi, erano alla diossina. È stata costretta a chiudere. A Taranto i bambini muoiono di cancro. Smuovere le coscienze è una necessità e un dovere: la gente deve sapere. Ecco il perché della mostra: non avevo un altro mezzo per esprimere tutto questo, allora ho ricreato un set dove riprendere il luogo della tragedia aggiungendo qualcosa di poetico».
Dunque, un problema che ci coinvolge tutti, da nord a sud.
«Quando si parla di immondizia si parla di Napoli, ma si sbaglia. L’immondizia è un business, per il quale c’è gente che lavora e che ci guadagna: un settore spesso corrotto e colluso.
Vivo a Roma da anni, qui la sporcizia è ovunque. Ma attenzione a non addebitare la responsabilità al sindaco: non c’è purtroppo una bacchetta magica che dall’oggi al domani risolve il problema, non è possibile purtroppo in poco tempo eliminare anni di corruzione, non è così semplice. Ma attenzione a definirlo un problema di Napoli, perché non è così».
C’è una foto alla quale si sente più legata?
«Sì, si intitola “Scappo dalla morte”: una barca appoggiata sugli stracci, che racconta un naufragio esistenziale, la difficoltà nel galleggiare in mondo contagiato e complesso come il nostro, in un’epoca nella quale emergenze come quella degli sbarchi non sono gestite nel migliore dei modi. Una foto che parla di sfruttamento: ci sono tante aziende che lavorano in nero e che smaltiscono in maniera illegale i rifiuti sotterrandoli, con danni incalcolabili. E le persone, che scappano da una morte certa per andare incontro, troppo spesso, a un’altra morte, che è quella dei sogni, della speranza, delle malattie, del diritto alla vita».
Come vede la sua Napoli oggi?
«È una città meravigliosa e spero di tornarci a vivere al più presto. È la città delle contraddizioni, che comprende l’orrore e allo stesso tempo la bellezza più assoluta: la bellezza d’animo, la creatività, la presenza di artisti straordinari. Quando ho invitato Gragnagnello alla mostra, lui mi ha risposto inviandomi una canzone scritta per la Terra dei Fuochi, un capolavoro. Abbiamo da dare molto al mondo, come città. Spero che prima o poi arrivino politici saldi e coscienziosi ma soprattutto mi auguro che i cittadini comprendano che questa terra è nostra e dei nostri figli: se chi sotterra rifiuti pensasse che quel veleno andrà a finire nel cibo di chi verrà, dei figli dei loro figli, forse ci ripenserebbe».
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