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Ci voleva l’Europa per imporci una revisione delle linee guida rimaste ferma ad una dozzina di anni fa. Eppure la necessità di un testo unico che semplifichi gli iter degli impianti e definisca ruoli e competenze dei vari enti e dello Stato era emersa da tempo, molto prima che nel Continente scoppiasse una guerra e si diffondesse il malefico virus del Covid-19.
Districarsi nella giunga delle norme è tuttora un’impresa titanica. Tra Autorizzazione unica, (Au), Procedura abilitativa semplificata, (Pas) e Comunicazione al Comune, una pratica si può arenare. Stiamo parlando di una materia che definire “regolata” è una parola grossa. E il cui principale quadro di riferimento resta il Dm 10 settembre 2010. Il fatto che fosse emanata dal ministero dello Sviluppo economico e frutto di una lunga mediazione con altri 2 ministeri – Ambiente, ora ministero per la Transizione ecologica, e il ministero per i Beni culturali – avrebbe dovuto mettere sull’avviso, far presagire l’incapacità o la non volontà di mettere d’accordo tutte le parti in causa. Un disastro annunciato, insomma.
Il federalismo non ha giocato a favore. Basti dire che 12 regioni esercitano la piena funzione autorizzativa; 4 prevedono una competenza condivisa tra regione e provincia e 3 la delega totale alla provincia. Può un Paese così concepito raggiungere i traguardi posti al termine di un road map che ha l’obiettivo di installare almeno 70 GW nel 2030 di potenza prodotta da fonti rinnovabili? Un obiettivo, si badi bene, pensato in funzione dell’emergenza climatica per ridurre le emissioni del 55% in uno scenario meno bellicoso di quello attuale.
SALVARE I PENNUTI O TUTELARE IL PAESAGGIO?
Un caso su tutti per capire di che contrasti parliamo ha riguardato appunto le turbine eoliche. Gli animalisti hanno protestato chiedendo che venissero colorate e diventassero ben visibili evitando così che uccelli e altri pennuti si schiantassero contro le eliche. Tutto ok? No. Perché a ruota è intervenuta la soprintendenza valutando in modo negativo la colorazione in quanto impattante sul paesaggio.
Ed ecco che ora il presidente Mario Draghi vuole vederci chiaro: ha chiesto spiegazioni ai suoi ministri. Già. Dov’è l’intoppo. Perché pur avendo super-semplificato le procedure continua ad esserci un imbuto. Gli è stato risposto facendo un giro largo. Che molto dipende dal nostro ordinamento, da leggi che ormai hanno 80 anni e che sono attualmente in vigore, norme che hanno radici storiche volte a tutelare in ogni modo il paesaggio. I poteri si possono comprimere ancora, certo. Si può intervenire ottimizzando la capacità organizzati degli uffici stravolti dal Covid. Resta però il telaio entro il quale si opera, una intelaiatura che più di tanto non si può toccare. “Nel nostro Paese – è stata la risposta di un ministro – per anni e anni ha prevalso una cultura conservativa. E per molti versi è stato un bene, ma ora che lo scenario è quello che conosciamo, abbiamo l’urgenza di diventare meno dipendenti sulla fornitura di combustibili e materie prime: questo passato ci è tornato addosso ed è diventato un peso”.
La madre di tutti i nodi, il groviglio che non si riesce a sciogliere, si è formato intorno ai progetti interdipendenti. Quelli cioè che coinvolgono più soggetti istituzionali. Regioni, province e comuni. La fase attuativa nel 99% dei casi diventa un percorso ad ostacoli. E sebbene l’indicazione sia stata quella di ridurre le stazioni appaltanti la distanza tra il dire e il fare è ancora tanta.
I “tappi” sono almeno due. Il primo, il più noto, è quello delle soprintendenze. Più che un “tappo” è in realtà una continua crisi di rigetto. Una bocciatura a senso unico. Si pensi che – dossier gennaio 2022 di Legambiente – i progetti per un impianto eolico respinti ammontano a 2 miliardi di investimenti, equivalenti a 3000 posti di lavoro bloccati. I veti di natura paesaggistica e archeologica si sommano agli interessi locali. Quello che gli inglesi chiamano Nimby (not in my back yard, ovvero “non nel mio giardino”) si sommano a Nimto (not in my terms off office, “non durante il mio mandato”). Risultato: le imprese che vorrebbe investire fanno un passo indietro e se ne vanno.
FERMO IL 57,5% DEI PROGETTI PRESENTATI TRE ANNI FA
Secondo l’ultimo rapporto sull’eolico del centro studi Elements reso pubblico nel marzo è ancora allo stadio di autorizzazione il 57,5% dei progetti proposti nel 2018; il 79,3 di quelli presentati nel 2019 e il 90% dei progetti presentati nel 2020 e il 99% protocollati nel 2021. Il tempo medio di anticamera è di 5,4 anni.
C’è poi un altro problema che non è certamente secondario. Con eolico ma in genere questo discorso vale per tutte le altre energie rinnovabili, la tecnologia gioca un ruolo essenziale. Restare 5 anni in attesa di una autorizzazione vuol dire . se e quando l’iter autorizzativo si sblocca – ritrovarsi con un progetto obsoleto. Non a caso, sempre secondo Elements, il 45% dei progetti autorizzati necessitano di una variante o di una proroga e a questi si aggiunge un altro 15% che – citiamo il dossier di Legambiente – incontra problemi post permitting.
Senza una semplificazione dell’iter sarebbero necessari ben 11 passaggi: Valutazione impatto ambientale (Via) del ministero della Transizione ecologica; Via Regionale; Autorizzazione unica; Licenza di officina elettrica; Richiesta; Preventivo e accettazione; Predisposizione del progetto; Autorizzazioni; Accettazione valore minimo; Contratto di Connessione. Quando e se le pale cominciano a girare, insomma, se non è un miracolo poco ci manca.
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