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Una delle ragioni fondamentali per cui la ripresa economica globale è in difficoltà è la scarsità di materie prime, quei beni che, come dice il nome, sono alla base di qualsiasi processo economico di produzione e sono ottenuti direttamente dalla natura.
Il problema è più evidente nell’energia, sia per intensità dei rialzi dei prezzi, misura della scarsità, sia per il fatto che la transizione ecologica, sulla bocca di tutti, avrebbe già dovuto far crollare i consumi delle materie prime energetiche che sono anche le fonti fossili.
Il caso più eclatante riguarda il cattivo e sporco carbone, la materia prima energetica che più di ogni altra contribuisce alle emissioni di CO2 di origine umana, la causa, come ci ha ammonito il 9 agosto scorso l’IPCC dell’ONU, della catastrofe ambientale imminente.
I consumi di carbone stanno aumentando velocemente in tutto il mondo e, dopo la flessione del 4% del 2020 dovuta a pandemia, quest’anno faranno segnare un balzo storico, dell’ordine del 7%, a oltre 3,7 miliardi di tonnellate; per dare un ordine di grandezza, l’Italia, uno dei paesi che consuma meno carbone, nel 2020 ne ha usato 8 milioni di tonnellate.
La ragione fondamentale è sempre quella che dura da oltre 50 anni, ovvero il fatto che il carbone serve nel mondo per fare elettricità: quando brucia, il calore scalda acqua che fa vapore e il vapore fa girare un alternatore che produce elettricità che viene mandata alla rete per i consumatori finali.
Nel mondo, dagli anni ’50, il carbone copre quasi il 40% della domanda di energia primaria per la produzione elettrica ed è una posizione che si va consolidando, nonostante i proclami del mondo ricco, in particolare dell’Europa, per un suo abbandono. È la fonte più economica, quella che anche i paesi di nuova industrializzazione, come la Cina o l’India, ma in genere tutti i paesi dell’Asia, si possono permettere.
Anche nella ricca Europa, però, nel 2021 i consumi della Germania, il paese che più è impegnato nella transizione verde, stanno rimbalzando di quasi il 30%. Le sue emissioni di CO2 faranno segnare un balzo e allontaneranno l’obiettivo di riduzione proprio mentre il partito dei verdi, il più forte in Europa, avrà un ruolo guida nel nuovo governo che si formerà dopo le elezioni del prossimo settembre.
Mentre l’Europa parla di Patto Verde, di riduzioni delle emissioni del 55% e di come arrivarci con il “Fit for 55”, i prezzi del carbone sono più che triplicati, da una media di 50 dollari per tonnellata del 2020 a 152 dollari a metà agosto. La causa principale è semplicemente il balzo della domanda, soprattutto in Asia, ma anche in Europa e negli USA, mentre la produzione ha incontrato crescenti difficoltà a rincorrere la ripresa dei consumi, anche perché da anni gli investimenti in nuove produzioni sono stati tagliati per timori, ancora lontani dal materializzarsi, circa i crollo dei consumi per limitazioni ambientali da cambiamento climatico.
La scarsità sul carbone è tale che ha forzato molti paesi asiatici a spostarsi sul molto più costoso gas naturale, una fonte più pulita, ma che deve sempre essere importata per la stragrande maggioranza dei paesi a prezzi normalmente superiori di tre volte quelli del carbone.
Così i prezzi del gas sono schizzati ancora più violentemente, rispetto a quelli del carbone, negli ultimi mesi. Il prezzo spot del gas in Europa è salito da una media 2020 di 10 euro per megawattora a 45 euro in questi giorni. Qui, il primo esportatore mondiale, la Russia, si sta comportando in maniera anomala ed esporta meno volumi del solito, proprio mentre la domanda è alta, con scorte basse, e mentre gli arrivi di navi di gas liquefatto si sono ridotte.
Anche negli USA, sono in forte aumento i prezzi del gas, diventata la fonte che più ha aiutato a ridurre le emissioni di CO2 sostituendo carbone. L’intreccio gas e carbone in Europa ha spinto al rialzo a livelli record i prezzi dell’elettricità oltre i 100 euro per megawattora, contro valori medi del 2020 fra i 30 e i 40 euro nei diversi paesi europei.
Stranamente il petrolio, la principale materia prima energetica e quella tradizionalmente più instabile, ha prezzi che negli ultimi giorni stanno arretrando. Da una media di 42 dollari per barile, il Brent era già salito a 77 dollari ad inizio luglio 2021, ma è ridisceso ieri a 66 dollari. Per ora risente ancora del fatto che gran parte degli aerei sono a terra e che il consumo di cherosene, uno dei principali suoi derivati, è inferiore del 50% rispetto ai livelli normali. Il diffondersi delle varianti Covid allontana il ritorno a normalità.
Ma è sul petrolio che si concentrano le maggiori preoccupazioni per scarsità future, come effetto della carenza di investimenti negli ultimi anni e per una domanda che, finita la pandemia, tonerà a correre, in attesa che la transizione ecologica ci porti qualche seria alternativa che attendiamo, inutilmente, da ormai 50 anni.
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