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COME l’acqua di un fiume carsico la questione delle differenze nel costo della vita fra i diversi Paesi e le diverse città di uno stesso Paese riemerge regolarmente. E oggi ha molte ragioni per riemergere.
In Italia la questione è molto legata alle famose o famigerate “gabbie salariali”, un’espressione che già dall’inizio si porta dietro una connotazione negativa, di costrizione e cattività. Le gabbie salariali furono create e applicate dal 1954 al 1972. Il sistema divideva l’Italia all’inizio in 14 zone, in cui i salari erano parametrati al costo della vita, e i livelli di questo costo, fra la città più cara e quella meno cara, potevano variare fino al 29%. Nel 1961 il numero di zone fu dimezzato, si passò da 14 a 7, e la forbice tra i salari passò dal 29% al 20%. Tuttavia i sindacati, che all’origine avevano accettato le gabbie, andarono cambiando idea, nel nome dell’uguaglianza a tutti i costi (della vita…), e finalmente le gabbie furono abolite, fra il 1969 e il 1972.
Come stanno oggi questi differenziali? Li pubblica l’Istat, se pure con un certo ritardo. Più tempestivamente, vengono pubblicati da una società – la Numbeo – fondata da un ingegnere informatico ex-Google. L’approccio è originale: milioni di prezzi vengono rilevati in più di 10mila città nel mondo, da centinaia di migliaia di rilevatori, e questo approccio “dal basso” è stato criticato perché non ci sono controlli e si presta ad abusi. Ma è difficile pensare che qualcuno voglia manipolare i dati sul costo della vita o degli affitti: non si vede quale guadagno monetario si possa ottenere da queste manipolazioni, e quindi è legittimo considerare i dati come attendibili.
Per l’Italia, la differenza fra il costo della vita (affitti esclusi) nella città più cara – Milano – e quella meno cara – Catania – è del 26%, non molto discosta da quella riscontrata più di mezzo secolo fa (anche qui, a conferma di una permanente diseguaglianza territoriale). La differenza per il livello degli affitti è molto più alta: gli affitti a Milano sono quasi tre volte più elevati rispetto a Palermo (tutti gli indici sono parametrati a New York = 100). Tutto questo ostacola quella mobilità che è necessaria per un mercato del lavoro flessibile, dove le risorse umane si spostano a seconda delle convenienze e della produttività. Per esempio, gli insegnanti del Sud non vogliono andare al Nord, perché lo stipendio sarebbe lo stesso e il costo della vita e degli affitti è maggiore.
Perché è oggi importante la questione dei differenziali nel costo della vita? Francamente, non è possibile reintrodurre le gabbie salariali. Ma è possibile far leva sul costo della vita come un incentivo alla localizzazione verso l’Italia in generale (vedi le differenze con le altre capitali europee riportate nella tabella) e verso il Mezzogiorno in particolare: la media del Centro-Nord fa risaltare un + 12% rispetto al Sud nel costo della vita e un +19% per gli affitti. Vanno emergendo tre correttivi alla globalizzazione tous azimuts degli anni scorsi. Il primo riguarda i beni strategici: è necessario diversificare per non dipendere troppo da un solo fornitore (ogni riferimento a Italia, Germania e gas russo non è casuale…). Lo abbiamo visto con il materiale sanitario necessario al contenimento della pandemia, e lo vediamo oggi con quel bene strategico per eccellenza che è l’energia, oltre che per le materie di base per l’industria farmaceutica. Bisogna investire per diversificare, e, fra le fattezze della scena italiana che vedono il nostro Paese ben posizionato per produrre beni strategici c’è anche il più basso costo della vita, specialmente nel Mezzogiorno.
Un secondo correttivo sta nel fatto che i fornitori non devono essere solo convenienti ma anche affidabili. Si è visto come i Paesi autoritari, dalla Russia alla Cina, possono usare delle loro forniture come arma di ricatto geopolitico. Ecco che la “rilocalizzazione” (il “reshoring”, cioè il ritorno in patria delle produzioni precedentemente delocalizzate) acquista così anche la dimensione dell’insediamento verso Paesi amici (il “friendshoring”). E, da questo punto di vista, l’Italia spunta la casella dei Paesi amici (e con un basso costo della vita…).
Un terzo correttivo sta nel passaggio dal “just in time” (quell’aspetto del processo produttivo che mira a minimizzare le scorte, con le forniture che arrivano al posto giusto nel momento giusto) al “just in case”: nel caso di imprevisti gravi (i famosi “cigni neri”) è bene avere più opzioni per mantenere quella produzione che prima camminava sul filo del “just in time”. Anche qui l’Italia spunta molte caselle: geopoliticamente affidabile, produttivamente flessibile e storicamente abile nel riorientare i flussi di produzione fra i mercati, i prodotti e i processi, può presentare molti atout per le scelte di insediamenti dall’estero. E nell’elenco dei vantaggi il Mezzogiorno, con il suo potenziale inespresso e il più basso costo della vitao, si presenta con le carte in regola.
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