L'incontro tra governo e sindacati a Palazzo Chigi
4 minuti per la letturaAll’incontro di ieri con il governo il sindacato si è presentato con un obiettivo preciso: accettare la mediazione raggiunta all’interno della maggioranza su quota 102 nel 2022, e fidarsi della promessa di aprire l’anno prossimo un confronto sulle pensioni che sia una cornucopia ricolma di misure di flessibilità, di bonus contributivi per le lavoratrici e per i lavoratori adibiti a lavori disagiati e di miglioramenti per le pensioni in essere.
Nel frattempo il governo non si è presentato a mani vuote: nel ddl di Bilancio il requisito anagrafico previsto per “Opzione donna” non è cambiato e il possibile esercizio è stato prorogato di un anno; il numero delle categorie insignite dello stigma del disagio (come risulta da un allegato al testo) è aumentato; i pensionati vedranno i loro trattamenti rivalutati automaticamente al costo della vita sulla base delle aliquote standard (secondo le fasce di importo) dopo alcuni decenni di manipolazioni varie allo scopo di fare cassa.
Inoltre, Mario Draghi potrebbe svolgere un’azione propedeutica e ricordare ai signori che si trovano dall’altra parte del tavolo (i quali ritengono evidentemente possibile la moltiplicazione dei pani e dei pesci) che quando si aumenta la spesa pensionistica ci si incammina in una direzione opposta a quella che porta alla riduzione del cuneo fiscale e contributivo, essendo l’aliquota contributiva pensionistica (il 33% della retribuzione) la parte più rilevante del cuneo stesso. E il nostro cuneo si piazza nelle prime posizioni tra i paesi sviluppati.
I sindacati hanno insistito perché venisse presa in considerazione la loro piattaforma. Su di essa Cgil, Cisl e Uil hanno avuto degli affidamenti dal precedente ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo; ma dovrebbero aver imparato a non comprare la Fontana di Trevi da un passante. Il clou delle proposte sindacali è più o meno lo stesso della Lega: esodo con “quota 41” di contributi a prescindere dall’età anagrafica. Oggi il requisito della pensione anticipata – bloccato fino al 2026 per quanto riguarda l’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita – è pari a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne.
I dati dimostrano che questa via d’uscita è stata utilizzata in numero maggiore della stessa quota 100 (62 anni di età più 38 di versamenti) per la banale ragione che i baby boomers sono in grado di far valere il requisito ordinario di anzianità (ancorché più elevato dei 38 anni, come abbiamo ricordato prima) ad una età inferiore a 62 anni. Ma, come si diceva nei primi film del terrore, la “cosa dell’altro mondo” consiste nell’altra via d’uscita che dovrebbe realizzare, secondo le confederazioni, l’agognata flessibilità: il pensionamento con 20 anni di contributi a partire da 62 anni. Ciò significa, in sostanza, abbassare di 5 anni – a parità di contribuzione minima – il trattamento di vecchiaia (ora a 67 anni e 20 di contributi). E aprire una prateria per l’esodo delle lavoratrici, che, per la loro posizione nel mercato del lavoro non riescono in generale ad accumulare lunghi periodi di anzianità contributiva: pertanto, soprattutto nei settori privati, non accedono facilmente al pensionamento anticipato, ma finiscono per compensare il minor numero di contributi versati, attendendo l’età prevista per la vecchiaia.
Ora è assolutamente vero che le donne – in conseguenza della parificazione con gli uomini – siano il genere che ha visto crescere di più il requisito anagrafico; mentre gli uomini sono riusciti a barcamenarsi grazie all’attenzione dedicata al trattamento di anzianità. Ma che senso avrebbe tornare così vistosamente indietro? A volerlo leggere si comprende il messaggio che proviene dalle proposte dei sindacati anche per quanto riguarda i giovani, ai quali, anziché il lavoro, si assicura che da anziani avranno comunque una “pensione di garanzia” perché non sarebbero altrimenti in grado di procurarsela lavorando da precari. Ha proprio ragione Irene Tinagli, vice segretaria del Pd, quando in una intervista a Il Foglio afferma: «in Italia ci si è ammalati troppe volte di pensionite», ovvero dell’idea che tutti i problemi si possono risolvere mandando i lavoratori in pensione.
A parte le prime reazioni a botta calda, la questione è molto semplice: si tratta di vedere se i sindacati capiscono il senso della mediazione intervenuta nell’ambito della maggioranza, focalizzato su quota 102 e sul “soccorso rosso” della platea del lavoro disagiato ai fini della possibilità di usufruire dell’Ape sociale (facendo valere 63 anni e 36 o 30 di contributi a seconda delle condizioni personali e familiari. La soluzione trovata e proposta nel ddl di Bilancio non delinea alcun orizzonte strategico, ma si accontenta di un periodo di transizione – l’anno prossimo – in vista della evoluzione del quadro politico. Se “Quandoque bonus dormitat Homerus” anche Mario Draghi può prendersi una pausa di riflessione, anche se non è confortante che su due “buchi’’ clamorosi ereditati dalle precedenti coalizioni (quota 100 e il RdC) il governo del Cavaliere bianco finisca per metterci una pezza.
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