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Nel 2021 il 2,9% dei medici italiani ha abbandonato gli ospedali pubblici per proseguire la propria attività altrove: all’estero, nel settore privato o accettando le proposte delle cooperative, soluzioni certamente più redditizie.

Ma è al Sud che si è registrata la maggiore emorragia: in Calabria, ad esempio, la percentuale sale al 3,8%, su una pianta organica che già deve fare i conti con voragini; in Puglia il 3,29% dei camici bianchi ha detto addio al sistema sanitario, in Sicilia addirittura si sale al 5,18%, in Campania poco più del 3%. Complessivamente, l’anno scorso gli ospedali italiani hanno perso quasi 3mila medici per dimissioni volontarie e circa 2mila tra infermieri e operatori sociosanitari hanno detto addio alle strutture sanitarie pubbliche.

E’ il calcolo fatto dalla Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) elaborando e incrociando i dati dell’Inps, del Conto Annuale del Tesoro e dell’Onaosi.

Nel dettaglio, hanno abbandono il settore sanitario pubblico 2.886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020, per una media nazionale del 2,9%. Ma è una continua emorragia, perché ai 2.886 del 2021 si sommano i circa 1.500 che sono andati via nel 2020 e i 3.100 medici che hanno “salutato” nel 2019, prima del Covid.

In tre anni, quindi, oltre 7mila medici hanno preferito passare nel privato, entrare a fare parte delle cooperative o accettare le proposte all’estero. E la gran parte di questi camici bianchi è formato da giovani professionisti, coloro che dovrebbero rappresentare il futuro della sanità italiana.

Una grande fuga che potrebbe provocare danni importanti nei prossimi anni. Settemila medici non si “sfornano” in tre anni, ne servono almeno il doppio, però in questo momento i camici bianchi, quelli giovani in particolare, vedono un’alternativa migliore nel privato e nelle cooperative.

Migliore dal punto di vista economico ma certamente anche per qualità di vita: basti pensare che un medico che opera per conto di una cooperativa, lavorando circa 15 giorni al mese può arrivare a guadagnare dai 7 agli 8mila euro, grazie a pagamenti che riconoscono sino a 120 euro per ogni ora trascorsa in ospedale.

Ecco perché il lavoro nelle strutture pubbliche non è più attrattivo. Pochi decenni fa, essere assunti a tempo indeterminato in un reparto ospedaliero era un traguardo, l’obiettivo. Era il posto fisso di prestigio, che dava soddisfazione professionale, opportunità di carriera, una certa sicurezza economica. Ci si realizzava. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di dimettersi dagli ospedali.

Oggi non è più così. Il 2,9% rappresenta la media nazionale, ma il fenomeno nel 2021 è molto più importante al Sud, dove anche le Case di cura sono sempre più competitive. Quindi c’è stata una inversione di rotta anche su questo fronte, visto che sino a qualche anno fa il fenomeno riguardava soprattutto il Centro-Nord.

Nel 2019, ad esempio, nelle Marche si era dimesso il 6.6% dei medici ospedalieri, a seguire il Veneto con 5,9%, poi Valle d’Aosta (3.8%) Piemonte (3.5%) e Lombardia (3,3%). Al Sud le dimissioni erano state inferiori, in Sicilia e Puglia pari all’1,9%, Basilicata (0,7%), Molise 0,6%, Calabria 2%, solo la Campania si avvicinava ai numeri del Nord con il 3,2%.

Delle 3.123 dimissioni volontarie, 465 si erano registrate in Veneto, 494 in Lombardia, praticamente quasi un terzo in due regioni del Nord. “Le Regioni in cui maggiori sono le dimissioni volontarie – si legge nel report 2020 di Anaao-Assomed – sono quelle del nord: è possibile che la ragione sia da ricercare nelle maggiori opportunità di lavoro nell’ospedalità privata o nel settore libero professionale”.

Se analizziamo il trend degli ultimi 12 anni, i dati sono allarmanti: la percentuale di medici che si sono dimessi dagli ospedali risulta in aumento in quasi tutte le regioni italiane. In numero assoluto si è passati da una media italiana di dimessi di 1.849 medici nel 2009 a quasi tremila nel 2021. Ma se analizziamo le dimissioni in relazione al numero totale di medici dipendenti, in Italia si è passati dal 1,6% di dimessi nel 2009 a 2,9% nel 2021.

In 12 anni, medici che si licenziano sono aumentati dell’81%. In Veneto, le dimissioni in 12 anni si sono quintuplicate, da 81 del 2009 si è passati nel 2019 a 465. In Lombardia, che nel 2009 contava numeri già alti, 194 per la precisione, le dimissioni sono aumentate di 2,5 volte, nelle Marche e in Piemonte di oltre 3 volte.

Se analizziamo infine l’andamento, è da notare come la curva dei licenziati si impenni proprio negli ultimi 3 anni. In particolare, nelle Marche dal 2017 al 2019 il numero di medici che si è dimesso è quasi triplicato, in Lazio e in Campania è più che raddoppiato. Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, nonostante partissero da numeri assoluti molto alti, in 3 anni hanno aumentato i medici che si sono dimessi rispettivamente del 115%, 50% e del 66%.

“Questi dati – si legge ancora nel report Anaao – confermano il quadro di gravissima sofferenza, non solo dei professionisti, ma anche del sistema sanitario nel suo complesso”. Secondo i sindacati negli ospedali pubblici i problemi sono molti: “Il taglio del personale e la carenza di specialisti hanno creato organici sempre più ridotti rendendo insostenibile il carico di lavoro; il lavoro burocratico è diventato intollerabile; l’autonomia decisionale è svilita, la professionalità poco premiata e per nulla incentivata; il coinvolgimento nei processi decisionali è assente; il loro lavoro ha perso valore, anche economico, come il proprio ruolo sociale; la solitudine di fronte a tutte le mancanze e le carenze organizzative è pesante da tollerare; il rischio di denunce legali e aggressioni, verbali e fisiche, è aumentato negli anni; le ambizioni di carriera sono state rese scarse”.

In Italia, nel 2009 i direttori di Struttura complessa, cioè l’apice della carriera professionale, erano 9.691, nel 2019 solo 6.629, il 31,5% in meno. I responsabili di Struttura semplice, il livello immediatamente inferiore, nel 2009 erano 18.536, dopo 10 anni il 44% in meno, cioè 10.368.


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