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Tutti d’accordo sul fatto che è il territorio a dover essere sostenuto e rigenerato e che solo la prossimità e l’uguaglianza delle prestazioni, indipendentemente da reddito e residenza, possano rimettere in funzione un Servizio sanitario nazionale efficiente ed efficace. In questi termini almeno è stata accolta la notizia che per la prima volta la Commissione Ue finanzia un Piano operativo nazionale (Pon) sulla Salute per l’Italia. E che lo fa con 625 milioni per la sanità del Mezzogiorno, destinati – come ha spiegato il ministro Speranza in audizione alla commissione Affari Sociali in merito al tema della riforma dell’assistenza sanitaria territoriale nell’ambito del Pnrr – a screening oncologici, povertà sanitaria, salute mentale e consultori. Per chi conosce e vive quotidianamente i numeri del Sud, la sua malasanità da cronaca nera e gli indici di fuga (per i più fortunati) per ricoveri e cure lontano da casa, non è un annuncio di poco conto.

Le risorse, anche grazie al ministero del Sud e della coesione territoriale di Mara Carfagna, si aggiungeranno, per rispettarne i tempi, a quelle già previste dal Piano nazionale di ripresa e resi-lienza e dal Piano per gli investimenti complementari (lunedì scorso è stato registrato il decreto di gennaio con la ripartizione alle Regioni di oltre 8 miliardi, di cui il 41,1% destinato al Sud) e ai 124 miliardi del Fondo sanitario nazionale. Dovranno colmare tutte quelle diseguaglianze che oltre ad aver creato gravi squilibri tra regioni, hanno finito per mettere a dura prova non solo il funzionamento dell’intero Sistema sanitario nazionale, ma persino i suoi principi ispiratori.

Entro i prossimi cinque mesi verrà presentato il Programma nazionale per l’equità nella salute ed entro il 31 maggio sarà firmato con ogni Regione un Cis, Contratto istituzionale di sviluppo, che dovrà definire nel dettaglio il programma e i criteri di monitoraggio.

DA DOVE SI PARTE

La decisione dell’Ue rispetto al primo Pon dedicato alla sanità del Sud va letta soprattutto alla luce dei dati ufficiali pre-pandemia, tutti gravemente deficitari nel Mezzogiorno e non solo rispetto alle singole aree prese in considerazione da questo nuovo investimento. Solo qualche esempio. Secondo l’Istat, già prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, la quota di donne che si sottopone a mammografia nel Nord-est d’Italia sfiora l’80%, nel Sud la stessa percentuale supera di poco il 45%. Non a caso, il divario di aspettativa di vita in Calabria è di oltre 9 anni in meno rispetto all’Emilia Romagna e di 15 anni in meno rispetto al Trentino Alto Adige.

Lo scenario sulla salute mentale e la depressione in Italia, che emergeva alla fine del 2019 dallo studio dell’Osservatorio nazionale nelle regioni a cura del Policlinico Universitario Gemelli Irccs di Roma, parlava di quasi 3 milioni di pazienti, ma di percentuali più che doppie di diffusione delle patologie a carico del Centro e del Sud, anche a causa della maggiore vulnerabilità dal punto di vista socio-economico. E a fronte di una maggiore debolezza dell’assistenza primaria. Non a caso, proprio da queste colonne, ci occupavamo a metà del 2021 dell’umiliazione che il Mezzogiorno ha vissuto finora anche in tema di spesa pubblica per la salute mentale: rispetto ai 78 euro della media nazionale, ciò che emergeva era il baratro tra i 48 euro della Basilicata e i 163 del Friuli. Divari a cui si aggiungeva quello sulla presenza delle strutture territoriali psichiatriche, ri-levato dalla Siep, Società italiana di epidemiologia psichiatrica, che registrava una media nazionale di 2,5 strutture su 100.000 abitanti, ma un +239% in Friuli e un -66% in Basilicata, con conseguenti diseguaglianze in termini di posti letto, utenti assistiti e personale disponibile.

Anche sul fronte consultori e salute di genere, i dati raccolti tra il 2018 ed il 2019 dall’Istituto superiore di sanità mettevano in luce una grande variabilità regionale. Se in Italia infatti c’è un consultorio ogni 35mila abitanti (invece che 20mila, come previsto dalla legge 34 del ’96), sulla quasi totalità delle strutture, 622 risultavano al Nord, 322 al Centro e 531 del Sud. Mentre in termini di organico, gli standard erano raggiunti solo in alcune regioni del Nord e solo per alcune figure e prestazioni professionali.

STRUTTURE, PERSONALE E TERRITORI

«Il Piano Marshall per la sanità meridionale – ha osservato il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli – da noi tante volte auspicato, va nella direzione di calmierare le disuguaglianze e di concretizzare i principi di equità e universalità d’accesso che informano il nostro Servizio sanitario nazionale». Finalizzando, almeno secondo le intenzioni del ministro, l’attuazione degli obiettivi del Pnrr in tema di salute attraverso le tre parole chiave di “prossimità”, “azione” e “uguaglianza”. I medici aggiungono l’esigenza di un rapporto di fiducia e vicinanza con il paziente, possibile solo, aggiunge Anelli, «andando a colmare i bisogni di salute laddove ce n’è necessità: sul territorio, nelle case, al letto del paziente, con un ruolo che i medici di medicina generale devono poter giocare da protagonisti, affiancati da infermieri, personale amministrativo, assistenti di studio, psicologi, fisioterapisti, con strumenti diagnostici adeguati, per poter fare un’ecografia, un elettrocardiogramma».

Le risorse del Pon salute rappresentano una boccata d’ossigeno per compensare gli scarsi finanziamenti degli anni passati che hanno contribuito a marcare in modo ancora più profondo la distanza tra il Nord ed il Sud del Paese anche secondo la Federazione Cimo-Fesmed, il sindacato che rappresenta oltre 18mila medici dipendenti del Ssn. A patto che «le risorse – ha sottolineato il presidente Guido Quici – siano allocate in modo appropriato e severamente controllato, collegate agli obiettivi del Pnrr e al rafforzamento della sanità territoriale degli studi dei medici di famiglia, dei nuovi ospedali e delle case di comunità e, soprattutto, che sia in stretto collegamento ed integrazione con gli ospedali». Strutture, secondo il sindacato, che devono tenere conto dei reali bisogni assistenziali della popolazione e non di logiche campanilistiche o elettorali e che devono poter essere servite da infrastrutture di viabilità e digitalizzazione adeguate.

«Ricordiamo – ha evidenziato Quici – che il Digital Economy and Society Index, che misura le performance digitali dei Paesi europei, pone l’Italia al 20° posto su 27 Stati membri. Che l’uso dei fascicoli sanitari elettronici da parte dei cittadini e degli operatori sanitari rimane disomogeneo su base regionale. Che lo stesso accesso alla banda larga è di gran lunga inferiore alla media europea e che le diseguaglianze sociali e culturali continuano ad essere profonde tra le regioni. La sanità digitale rappresenta dunque sicuramente il futuro, ma se non si interviene anche su questi aspetti sarà difficile riuscire ad espletarne gli effetti».

IL NODO “PERSONALE”: CALABRIA VS FRIULI VENEZIA GIULIA

Il ruolo del personale sanitario rappresenta unanimemente un fronte caldo. La carenza di medici e infermieri, stremati da due anni di pandemia, resta il problema più urgente da risolvere, persino più urgente di quello delle strutture. Se le richieste che arrivano anche per questo aspetto dalla Federazione Cimo-Fesmed sono principalmente quelle di accelerare le procedure concorsuali, stabilizzare rapidamente i medici assunti durante l’emergenza e prorogare la possibilità di assumere a tempo determinato gli specializzandi dal terzo anno, una strada in questo senso è stata indicata dal decreto legge Calabria, poi esteso a tutto il territorio regionale, in scadenza il 31 dicembre 2022.

E cioè la possibilità di assumere a tempo determinato gli specializzandi dal terzo anno, che possono accedere ai concorsi pubblici ed entrare in graduatoria, ottenendo la possibilità di essere assunti a tempo indeterminato una volta ottenuta la specializzazione. «Uno strumento senz’altro transitorio e di natura emergenziale – ha sostenuto ancora Quici – ma che ci aiuterebbe a traghettare il Servizio sanitario nazionale attraverso questi anni di sofferenza. Quanto previsto dal Dl Calabria andrebbe quindi prorogato al 31 dicembre 2024, quando inizieranno a vedersi gli effetti dell’aumento delle borse di specializzazione adottato in particolare nel 2020 e nel 2021».

Diversamente, secondo Quici, «continueremo ad assistere a delibere come quella adottata dal Friuli Venezia Giulia, che apre le porte delle strutture pubbliche, private, accreditate e convenzionate con il Servizio sanitario regionale anche a personale con un titolo di studio non riconosciuto dal ministero della Salute; o a notizie come quelle che arrivano da Urbino, dove servizi medici all’interno di strutture pubbliche vengo-no dati in appalto a società private. Senza provvedimenti rapidi e decisi, che mettano al centro i bisogni dei pazienti e le necessità dei professionisti, negli ospedali si rischia il caos».

Un caos aggravato dall’emergenza Covid. Se infatti la pressione sugli ospedali si va allentando, i medici in attività – seppure sottoposti a turni infiniti – non riescono comunque a far fronte alle richieste di prestazioni sospese o rimandate durante la pandemia, che vanno ad allungare le liste d’attesa già critiche al Sud prima del Covid e che dovranno, auspicabilmente, essere ridotte anche grazie ai fondi aggiuntivi in arrivo dall’Ue. Anche per questo le richieste della Federazione sindacale vanno nella direzione di assunzioni di forze professionali nuove ma a tempo indeterminato, con l’individuazione il più rapida possibile da parte delle aziende dei professionisti e degli operatori sanitari che hanno diritto alla stabilizzazione secondo quanto previsto dall’ultima legge di Bilancio, dopo aver valutato  il reale fabbisogno di personale per ciascuna area di attività e categoria professionale secondo reali standard assistenziali, «per evitare – ha sottolineato Quici – di lasciare ampio margine a quelle aziende che tendono a privilegiare l’assunzione di figure professionali spesso pletoriche e che di fatto, colmando i tetti di spesa, impediscono l’assunzione dei sanitari addetti alla diretta assistenza del paziente».

La riduzione delle procedure concorsuali attuali – in media oggi passano circa 6 mesi dalla pubblicazione del bando allo svolgimento del concorso stesso – aiuterebbe moltissimo lo svolgimento ed il turn over dell’attività ospedaliera, soprattutto dopo i due anni appena passati. Ma da sola, a fronte di un numero ancora insufficiente di borse di specializzazione e della mancata attrattiva che le strutture pubbliche hanno, non basterebbe. L’esempio più recente viene dall’ospedale Cardarelli di Napoli, costretto ad assumere solo quattro medici sui quindici posti che aveva bandito.

INFERMIERI, IL CASO PUGLIA E BASILICATA

Le risorse – tante – stanziate sul capitolo sanità accendono i riflettori sulla questione territorio e prossimità anche per il personale infermieristico, le cui carenze oscillano per il nostro Paese dalle 63mila unità della stima degli ordini alle 80mila di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari. Il capitolo dell’assistenza infermieristica di prossimità – dedicato, come previsto dal decreto Rilancio 2020, alle cure primarie degli utenti residenti in un determinato Distretto della Salute e assegnato presso l’Ambulatorio assistenziale territoriale – evidenzia che su alcuni territori come Basilicata e Puglia questa figura professionale continua a risentire della difficoltà stessa di trovare gli infermieri.

Secondo le stime Fnopi – Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, tra Puglia e Basilicata la carenza sfiorerebbe le 5.500 unità (poco meno di 5mila in Puglia e il resto in Basilicata), di cui oltre la metà proprio sul territorio. Rispettando i parametri indicati nel decreto Rilancio (8 infermieri di famiglia/comunità ogni 50mila abitanti) ne occorrerebbero circa 630 in Puglia e quasi 90 in Basilicata. Secondo l’Agenas, con cui il governo sta lavorando al nuovo decreto sull’assistenza sul territorio, per il “nuovo corso” ne servirebbero invece almeno uno ogni 2-3000 abitanti, calcolo che richiederebbe in Puglia tra i 1.300 e i 1.900 operatori e in Basilicata tra i 180 e i 280. In più, secondo i dati della Commissione Ue, anche solo per adeguarsi alla media dei Paesi Ocse (ma il nuovo modello di assistenza sul territorio che si configura con il Pnrr richiede numeri più alti) in Basilicata ci vorrebbero, tra ospedale e territorio, oltre 700 infermieri in più e in Puglia circa 4mila. Un vuoto considerato quasi incolmabile a causa di formazione mancata, blocchi del turn over, quarantene, fughe all’estero per migliorare retribuzioni e carriere, in Italia tra le più basse d’Europa: in Basilicata, per esempio, secondo il Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato (dati 2019) le retribuzioni sono calate tra il 2009 e il 2019 di quasi 22 euro (con la perdita del potere di acquisto si arriva a -3.646 l’anno) e in Puglia sono apparentemente aumentate nello stesso periodo di 1.237 euro/anno, ma con la perdita del potere di acquisto si raggiunge quota -2.391.


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