Posti letto di terapia intensiva
4 minuti per la letturaPrima dell’irruzione del Covid-19, i posti letto di terapia intensiva al Sud erano 1.539 mentre al Nord ne erano attivi 2.884. In rapporto alla popolazione, c’era un gap di circa tre punti percentuali in favore delle Regioni settentrionali. Due anni dopo, “grazie” all’emergenza sanitaria la disponibilità è aumentata in tutta Italia, gli spazi sono quasi raddoppiati ma la forbice tra Nord e Sud anziché ridursi è persino aumentata.
Oggi al Nord sono attivi, secondo i dati di Agenas e ministero della Salute aggiornati al 7 dicembre, 5.236 posti letto, al Sud 2.550. In sostanza, se prima la differenza tra Nord e Sud era di 1.345 posti nelle rianimazioni in favore delle Regioni settentrionali, oggi è salita a 2.736. Il quadro, però, è ancora più chiaro se prendiamo in considerazione quello che è l’obiettivo fissato dal Dl 34/2020: ogni Regione, venne stabilito durante la fase più acuta della pandemia, avrebbe dovuto attivare almeno 14 posti letto ogni 100mila abitanti.
Un risultato che è stato raggiunto solamente da una metà del Paese, il Nord; il Mezzogiorno, partendo già da una posizione di arretratezza, ha sì potenziato le sue terapie intensive ma ha perso ulteriore terreno rispetto a Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Valle d’Aosta, Piemonte. Infatti, allo stato attuale, secondo la rilevazione di Agenas, in Campania sono a disposizione 520 posti letto, contro i 335 del 2019 ma la regione di De Luca è comunque ultima nella classifica nazionale: complessivamente esistono 9,2 posti ogni 100mila residenti.
Quello della Campania è il caso più eclatante ma che accomuna tutto il Mezzogiorno, infatti agli ultimi posti, sotto l’obiettivo dei 14 posti letto ogni 100mila abitanti, troviamo tutte le Regioni del Sud: la Calabria è penultima con 9,6 posti ogni 100mila residenti; la Puglia quart’ultima (12,2), seguono la Sardegna (12,8), Molise (13,1). La Basilicata è al limite con 14,4 posti ogni 100mila residenti, l’unica eccezione positiva al Sud è la Sicilia, che di posti letto ne ha 864, pari a 17,8 ogni 100mila residenti. Al primo posto c’è la Valle d’Aosta (26,7 posti ogni 100mila), segue il Veneto, secondo con mille posti, cioè 20,6 ogni 100mila residenti; completa il podio l’Emilia Romagna (20 posti ogni 100mila). Sopra l’obiettivo dei 14 posti ogni 100mila ci sono anche Bolzano, le Marche, il Lazio, Trento, Toscana, Lombardia, Piemonte, Friuli e Liguria.
Complessivamente, in Italia si è passati da 5.179 posti letto di terapia intensiva pre Covid agli attuali 9.067: il potenziamento c’è stato ma è del tutto insufficiente al Sud rispetto alle esigenze e a quanto stabilito dal Dl del 2020. Le Regioni del Mezzogiorno pagano dazio non per incapacità o mancanza di organizzazione ma per carenza di personale: obbligate da 10-15 anni a piani di rientro lacrime e sangue, non hanno potuto assumere per oltre un decennio e adesso devono fare i conti con le conseguenze di politiche che si sono preoccupate solamente di tagliare e risparmiare.
Non è un caso che, nonostante il potenziamento, le regioni con il più basso rapporto tra residenti e posti letto di terapia intensiva siano proprio Calabria, Campania, Sardegna, Puglia, Molise e la stessa Basilicata. Tutte le Regioni del Mezzogiorno occupano ancora gli ultimi posti.
I 606 milioni stanziati dall’Esecutivo Conte per aumentare il numero delle rianimazioni non sono bastati, perché sino a quando non si metterà mano alle piante organiche gli sforzi saranno inutili. La situazione nelle terapie intensive, d’altronde, rispecchia lo stato generale dei posti letto attivi negli ospedali: nel 2012 in Puglia c’erano, in totale, 3,12 posti letto ogni mille residenti, nel 2018 sono scesi a 2,88 ogni mille abitanti; in Campania c’erano appena 2,76 posti letto ogni mille residenti, sei anni dopo si è passati addirittura a 2,62; in Calabria la percentuale era di 2,92, adesso è di 2,54; in Sicilia si è passati da 2,89 a 2,75 posti letto ogni mille abitanti; in Basilicata da 3,24 a 2,84. Nessuna regione del Sud, fatta eccezione per il Molise (3,08), raggiunge più la quota minima di 3 posti letto per ogni mille cittadini.
Nelle Regioni del Nord, invece, il taglio dei posti letto negli ospedali è stato molto più contenuto, quasi impercettibile, tanto che sono stati mantenuti livelli accettabili: la Lombardia nel 2012 disponeva di 3,76 posti letto ogni mille residenti, oggi ne ha 3,47; il Veneto è passato da 3,44 a 3,27; il Friuli Venezia Giulia da 3,53 a 3,13; il Piemonte da 3,70 a 3,36; la Liguria da 3,44 a 3,22; l’Emilia Romagna che nel 2012 disponeva addirittura di 4,17 posti letto ogni mille cittadini, oggi comunque può contare su 3,68 posti ogni mille; l’Umbria ha persino aumentato la sua dotazione, passando da 3,12 a 3,25; unica eccezione è la Toscana scesa da 3,18 posti letto ogni mille abitanti 2,75.
Il Nord, mediamente, “viaggia” su oltre tre posti letto ogni mille residenti. La fotografia è scattata dalla Corte dei Conti nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” e “immortala”, se ce ne fosse ancora bisogno, le drastiche e inique differenze tra le due Italie. C’è un Paese che, negli ultimi 15 anni, ha finanziato i suoi territori facendo figli e figliastri: il Nord ha ricevuto più risorse e ha potuto assumere, costruire ospedali, mantenere livelli di organici accettabili; il Sud, invece, ha dovuto stringere la cinghia, ha dovuto fare a meno di svariati miliardi e, oggi, il gap è sotto gli occhi di tutti. Almeno di chi vuol vedere.
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