La lettera spedita da Crisanti
4 minuti per la letturaChi ha nascosto lo studio in cui si diceva che quei tamponi rapidi non erano affidabili? E perché lo ha fatto? Per coprire chi e che cosa? C’è un fuori onda che sta scuotendo la sanità veneta gettando nuova luce su quello che il presidente della Regione Luca Zaia continua a descrivere come un “modello”.
Un dietro le quinte in cui il direttore generale della sanità Luciano Flor sussurra a bassa voce a un giornalista di Report (Rai3) ciò che non aveva osato dire al microfono. Le frasi non si distinguono perfettamente ma se ne coglie bene il senso: «Non potevamo prendere in considerazione quello studio, rischiavamo una causa da parte dell’azienda produttrice».
Negare l’esistenza di quello studio condotto dal virologo Andrea Crisanti voleva dire prendere per buono l’esito dei tamponi rapidi con il rischio di lasciare in giro “positivi” anche tra medici e infermieri. Un fatto gravissimo.
Senza dire che lo studio c’era. Era scritto tutto nero su bianco (vedi gli stralci della lettera in alto). Si informava la direzione generale della sanità veneta che dal 15 settembre al 16 ottobre 2020 erano stati effettuati 1.593 test e che ogni campione era stato analizzato con test rapido antigenico e successivamente con un molecolare.
Risultato: su 61 tamponi positivi al molecolare, 18 risultavano negativi al test rapido. Tradotto: tamponi inattendibili.
LA LETTERA NEGATA
La lettera inviata dall’azienda Ospedale Università Padova al direttore generale Flor, e p.c. al direttore sanitario Daniele Donato e alla direttrice del Dipartimento prevenzione Francesca Russo parla chiaro.
È la prova che lo studio esiste e che la Regione lo conosceva, ma nonostante tutto si è continuato a utilizzare quei tamponi di prima generazione. L’ammissione che dietro i numeri catastrofici dei contagi e dei decessi della seconda ondata veneta si celano omissioni ed errori.
Su tutto pende in sei diverse procure un esposto in cui si parla anche di altro, di contagiati classificati come asintomatici ancora prima di essere intervistati dalle strutture sanitarie. Un “caso nel caso”, visto che non presentare sintomi vuol dire non pesare sui parametri calcoli per le fasce di rischio.
«Quello studio sui tamponi rapidi non c’era – ha continuato a sostenere ancora ieri Luciano Flor nella conferenza stampa convocata ad hoc – La casa farmaceutica Abbott che li produce mi aveva chiesto quella ricerca e ho pensato che me la chiedessero per valutare gli estremi per farci causa e per questo ho risposto che quello studio che ha determinate caratteristiche scientifiche non c’era».
Flor ha ricostruito la cronologia: «Il 21 ottobre ricevo una lettera di Crisanti in cui vengono messi in dubbio i tamponi rapidi. Il 30 ottobre la Abbott chiede informazioni su quella ricerca e io chiedo ai due direttori generali che mi dicono che quello studio non c’è. Crisanti stesso mi dice che lo studio non c’è ma c’è un approfondimento diagnostico. Il 5 febbraio la ditta torna a chiedere lo studio che ancora non c’è, verrà pubblicato solo il 26 marzo 2021 su una rivista scientifica: su 1.500 test solo 3 hanno problemi».
Flor aggiunge: «Non mi dimetterò».
Formalmente forse ha ragione, un approfondimento diagnostico non è uno studio. Non dice che nel frattempo però i tamponi si erano evoluti, si era già alla seconda generazione, il danno era già fatto.
ZONA GIALLA A TUTTI I COSTI
Tutto sarebbe rimasto sotto silenzio se Andrea Crisanti, il virologo che ha trasformato la cittadina di Vo’ in un laboratorio vivente, non si fosse preso la briga di controllare l’affidabilità dei tamponi rapidi effettuando in parallelo un test molecolare. Da qual momento, in autotutela, Crisanti, direttore del Dipartimento di Microbiologia dell’Ospedale universitario di Padova, non ha più preso in considerazione quei test che lasciavano in circolazione falsi negativi.
Ora il Veneto ha altri problemi, anche più gravi. L’onda lunga del Kumbh Mela, la festa induista sul Gange, che ha causato migliaia di morti in India, dove si sono contagiati anche il padre e la figlia risultati positivi in Veneto all’ultima variante di importazione. A ognuno il suo mantra. Per i nostri governatori è non diventare mai “rossi”. Che cosa non si farebbe per restare in zona gialla, verrebbe da dire, pensando anche a cosa è successo in Sicilia, ai numeri taroccati pur di restare aggrappati alla fascia meno restrittiva delle misure anti-Covid.
Il Veneto ha conosciuto giorni bui, contato circa 8.200 decessi, tremila in più della prima fase, ma contro ogni evidenza è rimasto giallo anche quando i medici di molti ospedali denunciavano di operare in strutture vicine al collasso. Laura Puppato, ex senatrice Dem ha raccolto documenti su documenti e spedito un esposto (secretato) a 6 diverse procure. Un faldone con 108 allegati in cui si «smaschera la narrazione zaiana».
«A partire – dice Puppato, ex sindaco di Montebelluna – dalle 1.016 terapie intensive che in realtà non esistono. Quelle realmente utilizzabili, con un personale tra l’altro ridotto, sono 685. E poiché il numero delle terapie utilizzabili è uno dei criteri su cui si basa il Cts per attribuire il colore alle regioni, questo vuol dire che in Veneto, dove si è toccato anche il 30% di intensive occupate, la valutazione è stata sempre sballata per difetto. Un fatto gravissimo. Anche perché questi due mesi di zona gialla non sono serviti a rilanciare l’economia: abbiamo il Pil a -9,9%. Persino più basso della media nazionale».
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