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Emilia Romagna (31%), Friuli-Venezia Giulia (35%), Lazio (32%), Lombardia (38%), Piemonte (31%), Provincia autonoma di Bolzano (35%), Provincia autonoma di Trento (50%), Puglia (33%) e Veneto (37%).
Tutti i professoroni a capo di Regioni e Province autonome del Nord hanno fatto cilecca. La gestione dell’emergenza coronavirus in Lombardia e Veneto è un vero e proprio flop. La situazione si fa sempre più difficile in otto aree settentrionali e soltanto in una del Mezzogiorno, le occupazioni delle terapie intensive sono oltre la soglia di allerta.
LE SOGLIE D’ALLERTA
Infatti, in base al decreto del ministro della Salute del 30 aprile 2020, la soglia di allerta di posti in terapia intensiva occupati da malati Covid è stata fissata al 30%. Per quanto riguarda i posti occupati in area “non critica”, ovvero nei reparti di medicina, pneumologia e malattie infettive, la soglia limite è stata individuata al 40%.
A livello nazionale siamo ancora intorno al 36%, ma sono anche qui nove, una in più rispetto a una settimana fa, le regioni oltre soglia e tutte del centronord: Emilia Romagna (44%), Friuli Venezia Giulia (51%), Lazio (44%), Liguria (41%), Marche (44%), Piemonte (48%), Provincia autonoma di Bolzano (44%), Provincia autonoma di Trento (59%) e Veneto (44%).
Si segnala, come si legge nel report pubblicato da Agenas, «che i dati non tengono conto delle differenze nella composizione della popolazione (per sesso, età, fattori di rischio) o per gravità di sintomi e condizioni cliniche, che possono determinare una diversa propensione alla ospedalizzazione e/o ricovero in terapia intensiva».
Dall’analisi, realizzata dalla Fondazione The Bridge emerge un continuo calo degli investimenti da parte dello Stato nel servizio sanitario nazionale. Una forte diminuzione delle strutture di ricovero tra il 2007 e il 2017, sia pubbliche (-22%) che private (-11%), la riduzione complessiva di posti letto ospedalieri (-35.797) nello stesso periodo e un continuo calo degli investimenti da parte dello Stato nel servizio sanitario nazionale.
L’analisi evidenzia come nel nostro Paese si sia passati dai 12 posti letto per 1.000 abitanti nel 1969 ai 3,5 attuali. Inoltre, il valore del finanziamento ordinario dello Stato al Servizio sanitario nazionale in rapporto al Pil dal 2010 è in continuo calo, con una percentuale di spesa sanitaria prevista per il 2021 intorno al 6,3%, rispetto al 6,8% del 2014. Un dato allarmante, soprattutto se raffrontato ad altri Paesi Europei come Francia e Germania, dove l’investimento di fondi pubblici destinati alla sanità supera i 2.850 euro pro-capite a fronte dei soli 1.844 euro dell’Italia (fonte Istat 2016).
I TAGLI DEL PERSONALE
Anche per quanto riguarda il personale ospedaliero, la tendenza è sempre orientata verso una significativa e costante riduzione: dal 2007 al 2019 il personale negli ospedali pubblici è diminuito del -7%, i medici del -6% (con un rapporto medici del Ssn/1.000 abitanti passato da 19,1 a 17,6), gli infermieri del -5% (con un rapporto infermieri del Ssn/1.000 abitanti passato da 46,9 a 44,3).
Una riduzione da addebitarsi principalmente alle misure di contenimento della spesa previste con la legge 191/2009, sbloccate solo nel 2019, e al cosiddetto “blocco del turnover” definito con la legge n° 296 del 2006.
PRIMATO VACCINI NELLA UE
In questo scenario, preoccupante per una terza ondata ormai alle porte, c’è un aspetto positivo. Con oltre 320mila somministrazioni effettuate (0,55% del totale) l’Italia è il primo Paese nell’Unione europea per numero di vaccinazioni contro il Covid e all’ottavo posto nella classifica mondiale. È quanto emerge dall’attività di ricerca raccolta nel sito Our World in Data.
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